II Federico, il puer Apuliae ansima, rantola, si contorce dal dolore all’Anfiteatro di Lucera con Flavio Albanese

by Gabriele Rana

Stupor mundi, puer Apuliae: con qualsiasi nome lo si voglia chiamare, Federico II di Svevia non avrebbe bisogno di presentazioni. Una personalità così complessa e contraddittoria che sia i suoi contemporanei, sia i nostri storici faticano ancora interpretare: un uomo fortemente ancorato al mondo medievale per alcuni, precursore dei monarchi illuminati del Settecento per altri, tra gli ultimi interpreti dell’impero universale, ma anche l’uomo dell’accentramento statale in senso moderno contro il feudalesimo.

L’uomo delle Costituzioni melfitane, della Scuola siciliana e della tolleranza religiosa nei confronti di ebrei e musulmani ai tempi delle crociate. Lo stesso Federico che rese Lucera la base di una comunità di migliaia di musulmani, poi purgata dagli Angioini poco tempo dopo la sua morte. L’Imperatore è tornato a parlare ieri sera all’Anfiteatro Augusteo di quella stessa città, interpretato da Flavio Albanese in un’opera di Roberto Scarpetti: “II Federico (Secondo Federico)”.

A esibirsi ieri nel primo di tre spettacoli a cura di PrimaVera al Garibaldi in occasione della rassegna culturale: Estate, Muse, Stelle all’Anfiteatro di Lucera, è stata la Compagnia del Sole (fondata da Flavio Albanese e Marinella Anaclerio), con interventi musicali de “La Cantiga de la Serena”, un ensemble di musicisti pugliesi che da anni si dedica al recupero e alla rielaborazione della musica antica e tradizionale.

Era Stupor mundi perché osava fare ciò che altri non osavano” dice Marinella Anaclerio, regista dell’opera teatrale “A me ha stupito in positivo questo suo concetto di ordine e armonia. Era un uomo circondato da poeti e musicisti e per lui l’armonia era l’unico modo per mantenere la pace. Non faceva le cose per motivazioni religiose o per bontà, ma solo per razionalità. Per lui esisteva solo un’idea: la legge è uguale per tutti”. Continua parlando dell’attualità di Federico II: “Vedendo lo spettacolo si capiscono i vari nodi tuttora non risolti e per i quali lui ha lottato. Ne dico solo uno: lui tornò dalle crociate senza sferrare un solo colpo. Per lui “missioni di pace”, non erano altro che una fesseria, un mercato di terre e non voleva combatterle. Andò dal sultano al-Kamil e con lui strinse un accordo di pace e si mise d’accordo, venendo scomunicato. E cosa sono le missioni di pace di oggi se non una menzogna come le crociate di ieri?”.

Nel personaggio di Federico portato in scena ieri all’Anfiteatro di Lucera non c’è nulla di meraviglioso o stupefacente, come nel racconto classico che viene fatto di lui. Dalle prime battute recitate a sinistra della platea, quando ancora tra gli spettatori c’era chi si lamentava per la presenza di posti riservati, fino al buio che precede gli applausi finali, l’uomo che domina la scena non è il grande Imperatore che dominò l’Europa dalle terre fredde della Germania alle punte più basse della Sicilia, il fanciullo di Puglia (o l’anticristo per i papi che lo odiarono), ma è un Federico distrutto, nei suoi ultimi attimi di vita nella domus in Fiorentino di Puglia.

Il protagonista di “II Federico” ansima, rantola, si contorce dal dolore provocato dalla patologia addominale, consapevole della sua morte che avverrà – per sua stessa ammissione – “nella merda” e mentre affronta tutto questo, rivive i ricordi del suo passato. Potrebbe ricordare i momenti di gloria, come l’entrata trionfale a Gerusalemme, eppure rivive con rammarico alcuni dei suoi momenti peggiori: il presunto suicidio del primogenito Enrico, da lui prima condannato a morte e poi arrestato per essersi alleato con la Lega Lombarda o il ricordo di Pier della Vigna, suo più fidato consigliere, da lui accecato e anche in questo caso morto suicida prendendo a testate le pareti della cella. In scene dove i tormenti si alternano a parole accompagnate dagli interventi musicali, rivive anche i momenti di corte, quando vennero redatte le Costituzioni melfitane, l’incontro con il sultano al-Kamil, momenti sì felici e stupefacenti, ma che lo spettatore osserva con gli occhi di un Federico ormai morente, con occhi nostalgici e in tutti i ricordi, che si susseguono quasi come il delirio del malato, il Re quasi mai apparirà giovane e forte come un tempo, ma debole, quasi sporco, con un fazzoletto alla mano: non una leggenda, ma un essere umano. Un’umanità che esprime comunque grandezza, ed è proprio questa sua grandezza che accompagna chi segue l’opera fino scena finale, quando il momento della nascita di Federico, avvenuta in piazza a Jesi e il momento della sua morte, avvenuto alla luce della sua stanza, si sovrappongono. E, dopo ciò, il buio.

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