Il collaudato duo Lo Cascio-Rubini sceglie la sottrazione per il romanzo universo Dracula

by Massimo Fragassi

Recensire uno spettacolo teatrale è come scrivere un libro giallo, in cui – di regola – l’ultima riga risolve la trama e conclude il racconto. Ma questo non è un poliziesco e, soprattutto, io non sono un critico teatrale, dunque mi perdonerete se comincio dalla fine. E la fine è: mah.

Antefatto: Due dei più talentuosi attori del Teatro italiano – Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio – decidono di sperimentarsi nella trasposizione del più gotico e sensuale dei romanzi, “Dracula”.

La D’Urso su Canale 5  –  e la sosta della Champions League – contribuiscono a rendere l’evento allettante e così, alle nove di una fredda sera di fine marzo, mi ritrovo seduto in un palco di terza fila a fissare il sipario chiuso del Giordano. Poi, d’improvviso, buio in sala, silenzio e lo spettacolo ha inizio. Finalmente.

La trama del libro è nota: il giovane procuratore Jonathan Harker viene incaricato dal suo studio legale di recarsi in Transilvania per concludere un affare immobiliare, la vendita di una casa a Londra. Sfiga vuole che il misterioso acquirente sia l’inquietante Conte Dracula – il “vampiro” condannato in sorte a un’eternità da “non morto” – intenzionato a trasferirsi in Inghilterra per far proseliti e metter su famiglia.

Ma Dracula, si sa, non è tipo romantico e il suo soggiorno londinese si trasforma ben presto in un’orgia di sesso, sangue e morte, di cui a farne le spese è soprattutto la bella Mina – moglie devota (e puritana) del buon procuratore – che, concupita e “fatta propria” dal Nostro (con un morso al collo, ça va sans dire), è ora in pericolo di vita, talché solo la morte del Conte può redimerla e salvarla da quel ferale incantesimo.

E così, armato di coraggio e di crocifisso, l’impavido Harker si precipita in Transilvania, ove nel frattempo il Conte è riparato, e – coadiuvato dal dott. Seward, brillante psichiatra e suo vecchio amico, nonché dal di lui Maestro, l’esimio Prof. Van Helsing – in un’epica scena finale trafigge al petto il “non morto” privandolo, al contempo, del “non” e della vita.

Pubblicato nel 1897, il romanzo di Bram Stoker ha il respiro ampio e avvolgente dei capolavori letterari. Ciò che rende un’opera tale è la capacità di trasformare la pagina scritta in un crocevia di dubbi e di emozioni in cui il racconto non è mai fine a se stesso, ma muta senso e direzione a seconda della via intrapresa, ché ad ogni strada corrisponde un viaggio negli abissi più segreti e remoti di ciascun lettore.

Il successo o meno di un adattamento teatrale consiste proprio in questo: porre lo spettatore di fronte al quadrivio, indicargli una strada e accompagnarlo per mano fino alla destinazione della trama, ché il senso poi lo troverà da sé (se l’opera è riuscita).

Uno scrittore che amo, Thomas Wolfe, definì “Dracula” il crocevia dei più intimi misteri primordiali: la morte, il sangue, l’amore e i loro reciproci legami. Aveva ragione, poiché i livelli di lettura del romanzo – e del suo personaggio principale – sono molteplici e tutti sorprendenti.

Per esempio: conversando con il Nostro, l’inquieto Harker realizza, basito, che l’immagine del Conte – posto alle sue spalle – non è riflessa dallo specchio, a differenza della sua che viceversa campeggia in primo piano. Orbene, cos’è questa se non la metafora del Male che alberga in ognuno di noi, invisibile ai nostri occhi poiché, al fine, il Male “siamo” noi?

E cosa ispira l’immagine del “non morto” che, trafitto al petto, infine spira (con un sorriso di “sollievo”, scrive Stoker, aprendo le porte all’Enigma proprio dove il romanzo si chiude) se non l’idea che la Morte – a cui Dracula presta corpo e irriverenza – possa essere combattuta, esorcizzata e vinta, con “sollievo”, solo dalle emozioni sincere, quelle che nascono dal cuore, le uniche che danno senso e prospettiva alla Vita?

Ecco, l’adattamento teatrale curato da Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi pecca proprio in questo: di fronte alle infinite sollecitazioni di un “romanzo – universo”, decide infine di non decidere, seguendo la strada – nota e rassicurante  – del racconto fine a se stesso, della trama come scopo e non come mezzo (di indagine e di scavo).

Da qui gli esiti prevedibili – e talora esilaranti – di personaggi superficiali e senza spessore. Per cui Dracula è “solo” un vampiro lascivo e incazzato, Harker un giovane “inquadrato” che in Romania scopre sesso e trasgressione, Van Helsing uno scienziato canuto e ottenebrato evidentemente prossimo “a quota 100”.

Ed è un peccato, poiché gli attori sono bravi e talentuosi. Tutti.

Lo Cascio, ad esempio. La scorsa stagione teatrale ho avuto modo di apprezzarlo e applaudirlo nell’ottima trasposizione di “Delitto e Castigo” – anche allora in coppia con Rubini, nel più classico dei déjà-vu. E, tuttavia, mentre in quello era intimo e avvolgente, qui – dove interpreta Jonathan Harker – è portato (costretto?) a gigioneggiare e urlare e contrarsi e rotolare nel tentativo – vano – di restituire introspezione e carattere a un personaggio anonimo e piano.

E se Sergio Rubini – un dimesso e compiacente Van Helsing –  lavora tutto “in sottrazione” (secondo una cifra interpretativa già sperimentata nei suoi ultimi lavori), Margherita Laterza è chiamata a urlare, a scalciare e a dimenarsi oltre le intenzioni per restituire alla sua Mina gli accenti trasgressivi e il trasporto passionale così latenti e vividi nel romanzo quanto repressi e defilati in questo adattamento teatrale.

Detto di Geno Diana costretto dalla sceneggiatura a un Dracula ancillare (nel peso della trama) e mestamente caricaturale – resteranno a imperitura memoria dell’attonito redattore le battute stentoree in lingua rumena (o presunta tale) e gli stridori tardoliceali di fronte all’imposizione del crocifisso (eh, già) – una nota a margine merita la convincente interpretazione di Lorenzo Lavia nel ruolo secondario di Martin Ranfield (primo adpeto inglese del Conte), la quale, ancorché “sopra le righe” – con buona pace dei miei pazienti lettori – è qui se non altro giustificata dal già discusso (e discutibile) copione, essendo il personaggio letteralmente squinternato e perciò rinchiuso in un manicomio.

Ciò detto, cosa rimarrà di questa rappresentazione teatrale allo spettatore più esigente e avveduto?

La regia di Rubini, certo, con l’uso efficace ed evocativo dello spazio scenico e delle luci (sorprendente, al riguardo, l’effetto flashback ingenerato dalla danza alternata di buio e penombra), il talento cristallino e – ahimé – represso degli attori (Dio salvi Lo Cascio, e la Regina) e, soprattutto, l’idea intima e frustrante di una lodevole occasione persa.

In conclusione, ne valeva la pena? Mah.

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