“Il senso del Teatro si realizza nell’incontro istantaneo con lo spettatore”. Carlo Bruni punta su “scuola e salute” contro il rischio dell’autoreferenzialità

by Antonella Soccio

“Un teatro anche quando è chiuso riesce a parlare del tempo che stiamo vivendo”, il direttore artistico del Teatro Garibaldi di Bisceglie Carlo Bruni ha commentato così l’inconsueta ripartenza del contenitore culturale cittadino, impacchettato per celebrare l’artista Christo Vladimirov Javacheff, recentemente scomparso.

Bruni ha esperienze nella direzione di teatri in tutta Italia. In Puglia ha animato per anni il Kismet, le stagioni di prosa del teatro Piccinni, le edizioni del Carnevale di Putignano. Negli ultimi tempi ha dato vita alla straordinaria visione di Trani sul Filo e ha avviato la pratica speciale del laboratorio di comunità partecipato biscegliese, definito «Sistema Garibaldi».

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato sui tempi che attendono il Teatro.

Direttore Bruni, lei ha sempre puntato molto in tutti i teatri diretti a creare una Comunità teatrale coi cittadini, col pubblico. Quanto oggi questa sua grande intuizione diventa ancor più necessaria per il post Covid? Non si rischia col distanziamento di allontanare quel pubblico che già notoriamente frequenta poco i teatri?

A differenza di altri linguaggi dell’arte che possono contare su tempi più dilatati, il senso del Teatro si realizza nell’incontro istantaneo con lo spettatore e dunque non è sbagliato dire che il Teatro si manifesta nella relazione, senza la quale non esiste. Questo principio è stato ed è spesso trascurato e il Teatro corre stabilmente il rischio dell’autoreferenzialità. Ecco, i limiti imposti dall’emergenza alla relazione costituiscono evidentemente un rischio per il Teatro, ma direi anche e soprattutto per la Comunità. Dunque, il nostro lavoro può e deve rappresentare questi rischi e, facendolo, confermare il suo senso. Se l’idea di sviluppo sino ad oggi coltivata dall’occidente e contagiata globalmente va segnalando le sue tragiche falle, credo sia importante che il Teatro non l’assecondi, ma le opponga uno sguardo critico, rispettando quel prezioso ruolo che l’umanità gli ha attribuito da millenni.

I teatri storici, se le restrizioni continueranno ad essere quelle attuali anche per la prossima stagione, riducono la loro capienza di ¾ quasi. Cosa significa questo per la programmazione con le varie compagnie e carovane teatrali? Crede che si possa ovviare a questo problema delocalizzando lo spettacolo, sempre che sia leggero e con poche scene, in più luoghi cittadini?

I Teatri storici costituiscono un patrimonio straordinario, ma evidentemente non sono il Teatro e dunque la resa dei conti anche sul senso degli edifici che custodiamo non può essere rinviata. Allo stesso tempo, sarebbe piuttosto grave se, in prospettiva, adottassimo (come la mascherina) l’idea del distanziamento sociale come ordinaria. Intanto c’è bisogno del tempo necessario ad affrontare il problema del virus e anche del tempo necessario alla sperimentazione di nuove forme. Questa crisi potrebbe e dovrebbe costituire un vantaggio per chi, “costretto” sino a ieri dai numeri (riempire una platea da 700 posti) a fare scelte di retroguardia, puntando sulla sicurezza del nome in cartellone, fosse comunque interessato a sperimentare, a proporre il nuovo. Attenzione: che non significa “elitario”, ma poco noto: disarmato di fronte alla capacità persuasiva del mezzo televisivo, ad esempio. Dunque, la crisi potrebbe servire a rimettere in moto un rapporto virtuoso fra arti sceniche e pubblico, rilanciandone la specialità. 

Il teatro classico nasce all’esterno, in grosse arene. Come mai c’è questa resistenza oggi a pensare a spettacoli collettivi per le grandi “masse” all’aperto?

Non so se vi sia resistenza, so che la gestione di spazi aperti comporta maggiori oneri e difficoltà, ma credo che sia pertinente rivalutarne senso e potenzialità. D’altronde l’Italia si presta molto a questo scopo e offre spazi e paesaggi straordinari. 

Di che tipo di spettacoli e di cultura il pubblico oggi ha davvero bisogno? Crede che questa possa essere una nuova grande stagione per il teatro civile e di narrazione? Alcuni suoi colleghi ritengono che per molti mesi si potranno portare in scena solo monologhi…

Cogliendo da Rezza la bellissima provocazione, direi che personalmente preferisco il teatro incivile: certamente quello che mette in crisi lo spettatore piuttosto che compiacerlo o rassicurarlo con una dose tranquillante di “civiltà”. Il monologo tuttavia è una forma preziosa (quanto impegnativa) e la considero come una delle potenzialità della scena, fra l’altro praticandola molto nei miei lavori, grazie al sodalizio con un’attrice come Nunzia Antonino. Non vorrei che si esasperasse una direzione già molto diffusa che, per ridurre i costi, va privilegiando il grande nome solitario, confermando gli stessi vizi e riducendo il lavoro dei tanti che intorno all’attore animano la scena.

Carlo Bruni e Nunzia Antonino, diretta in Lenòr

Che ne pensa dell’idea dell’attrice Monica Guerritore di una Rai al servizio dei vari sistemi regionali teatrali? Potrebbe essere un’idea anche per il TPP? Crede che le riprese televisive possano aiutare la fruizione?

Il teatro in televisione ha un suo valore e ci sono stati tempi in cui ha molto contribuito alla cultura teatrale degli spettatori. Trovo però che sarebbe grave divenisse un surrogato e invece non crescesse come un altro dei campi espressivi dell’arte, maturando quella autonomia che in tanti casi ha già saputo esprimere. Direi che dovremmo stare più attenti a frenare la valanga di esibizioni web. Superata la dimensione della denuncia, corrono il rischio di assorbire risorse che invece andrebbero destinate ad una ripopolazione dei teatri, dello spettacolo dal vivo, dell’incontro. 

Come la tecnologia può integrarsi con lo spettacolo dal vivo? C’è un modo affinché tutto non si riduca al mero streaming?

La tecnologia è già oggi uno strumento prezioso in Teatro e tanti artisti hanno maturato competenze tali da renderne pienamente potenzialità e qualità. Il Teatro non è un oggetto, un prodotto, ma un processo partecipe del più complesso processo collettivo: un cammino da percorrere senza pregiudizi, fra tradizione e innovazione. Persino lo streaming ha una sua dignità. Determinati sono la conoscenza e la necessità: sapere cosa dire e capire a fondo quale sia il modo più giusto per farlo. Talvolta potrà essere lo streaming, talaltra il teatro e un altra volta ancora la combinazione dei due veicoli secondo modalità che magari scopriremo domani.

Ritiene che il distanziamento possa influire sulla fruizione a tal punto da rendere l’esperienza collettiva di uno spettacolo, quasi una cerimonia oserei dire funebre? Non si rischia di trasformare l’esperienza di stare a teatro in un concetto estetizzante, in un piacere culturale vacuo?

Il distanziamento è una patologia della comunità. Naturalmente potrà comportarne mutazioni profonde. La cosa, onestamente mi spaventa. Il comune obiettivo oggi, credo debba essere quello di cambiare i nostri comportamenti individuali e collettivi, perché resti una brutta singolare esperienza. 

Pensa che il Governo abbia fatto abbastanza per la cultura e per il teatro fino ad oggi?

Il Governo, i governi non possono che rappresentare il disagio del tempo e le sue straordinarie contraddizioni. Le critiche, tante, che gli rivolgerei e rivolgo, a livello nazionale come a quello locale, hanno bisogno di gambe, intelligenze, partecipazione. È giusto pretendere maggiori attenzioni e soprattutto un cambio di rotta che “redditi di emergenza” non possono nè potranno evidentemente risolvere. Ma è altrettanto necessaria una mobilitazione di corpi e menti che smettano di delegare ad altri, spesso scelti per opportunismo, la soluzione. La rappresentanza come la rappresentazione traducono su di un altro fronte quanto esprimiamo come Comunità. Dovremmo a gran voce puntare su Scuola e Salute, e su questo semplice binomio impegnarci collettivamente, sapendo che salute della mente e del corpo costituiscono l’unico vero patrimonio spendibile per la vita, anche del Teatro.

Infine la maschera e le mascherine anticontagio. C’è nella Commedia dell’Arte e nel teatro classico qualche risposta ancora attuale per l’oggi?

Certo è curioso che dopo aver tanto contestato veli e burqua, ci si ritrovi a sfoggiare mascherine griffate. Preferisco di gran lunga un volto coperto per motivi religiosi che per motivi pandemici. Siamo in piena Commedia. Ma l’arte fatica.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.