Il teatro per Arnaldo Picchi, tra stati puri e polisemici della messa in scena

by Filippo Mucciarone

Omaggiare l’arte del teatro nel ricordo lungimirante e pedagogico di Arnaldo Picchi è anche un ‘occasione quanto mai attuale, per crescita e pensiero, circa il suo metodo pluridisciplinare nell’approccio di ricerca costante nel farsi del discorso, che fu proprio dai suoi albori sino al Dams di Bologna nel 1971 e poi negli anni lì defluenti a seguire. Nel mettere la sua prima formazione di Chimico puro a disposizione delle vicende vicine e lontane del Teatro, per farne un luogo polivalente della mente in un percorso variegato e “semplificato” rivolto (quasi sempre) al presente. Un luogo (anche dell’anima) in cui educare, trasformare esperienze ed emozioni in affinità e ponti tra culture ed epoche differenti…

…Teatro era del resto per Picchi, “inaudita” possibilità di poter tramutare le leggi gravitazionali di Keplero (attraverso armonia e metodo) nelle relazioni che tengono assieme l’ideale armonico tra intervalli di scale musicali. Un caso specifico, evidentemente, eidetico (fino a un certo punto) in cui non richiedere giustificazione, la dove un presunto adeguamento (o canovaccio) conciliatore di prospettiva, non arrecasse nell’aurea del suo trattamento, scrauso disarcionamento pro modello armonico (appunto) di merito. Un fomento questo, che proficiente il testo, come anche un immagine storica o un quadro, da intendersi come in riuscita alla messa in scena in maniera non ucronica, con specifico accento ed attenzione del rapporto in seno la giustificazione (o giustezza) del personaggio (tra interno ed esterno – tra spazi vuoti e pieni del testo).

E del resto far l’epiteto d’un personaggio o di qualcuno come sovente avviene dall’interno di un testo letterario (in cui far lievitare o meno la reattività delle parole) attraverso un flusso di pur puro vitalismo, fa approntare su una svolta conseguente indirizzata all’intreccio della vicenda, dato dall’immersione ed unione tra psicologia e struttura del testo stesso (vedi proprio tragico e comico e situazioni in cui si creano). Ugualmente intendere legare il personaggio in tal modo al carattere delle azioni, “a prescindere” da trastullamenti osteggianti l’oggettivismo dello strutturalismo d’insieme conseguente, porterebbe difatti null’altro tra vaniloqui e raccozzamenti di varia entità.

Seppur così facendo gli uomini come a mò di giurabbacco si rivelino irrilevanti per la storia, la storia in se è invece utile per capire ragioni tra le più varie (come ad esempio poter sondare in ciò un certo riflesso risalente dal quaccherismo).

Un antidoto senza alibi di sorta? La “Retorica avversa” Pirandelliana: “La verità è così falsa quando la si inventa”. In un monito del sentimento del contrario derivante proprio dalla formazione personale e dal mondo e dalla terra di origine dello scrittore premio Nobel: tra positivismo siciliano e relativismo tedesco.

Scrollar di dosso vecchi valori e convenzioni sociali, mal recepiti, ed imposti in maniera indotta, si traduce in una “sanatoria” morale in cui la parte umana (nella forma) di un uomo, è più uomo se viene sacrificata ed impedita la normalità, e diviene “reprobo” il suo destino che amaramente diventa comicità nel paradosso di chi cerca di liberarsi ma si fiacca.

Umorismo tragico che facilmente porta al grottesco e ben fa evincere la “metafora” della lettura registica pirandelliana, a cui far riferimento, nel tipizzare in modo euristico attore e personaggio (movenze e posizioni), attraverso un bagaglio storico artistico, che se da un lato possono creare maggior cavilli, dall’altro può far meglio riflettere vs la scena.

Una posizione umoristica che, collegata alla Francesca da Rimini nella sua collocazione Dantesca dell’inferno come solo alternativa per salvarla per mezzo di una variante materialistico spirituale, approda dalla tragedia alla farsa attraverso una liricità amorosa d’uno spiritualismo fisico.

Punto di snodo, per intendersi, ed in cui potrebbe venirci incontro in maniera meno egra la suddivisione morfologico fiabesca dell’Iliade o Odissea. Dove il testo semplificato in piccole tranche di azioni (e non in scene e atti) attraverso uno specifico significato o rimando, classico, pone scelta alle oggettivazioni di cui parla il linguaggio del montaggio video cinematografico (attraverso la sua funzione sintattica lessico grammaticale).

Sempre a riguardo, citando in allusione larga, un approccio linguistico al Cantico dei Cantici, piuttosto che in una dimensione letterariamente misurata a dismisura, come avviene in autori come Joice o Gadda, sempre nell’atto e nell’economia della messa in scena, questo può suggerirci una presa in consegna del soggetto da scotomizzare. E attraverso un montaggio sintattico dunque, portarci all’esecrazione scenica conseguente, con un guado semantico che porti in tal modo sia al dramma Shakesperiano che in maniera “intertestuale” ad una tecnicità scenica amorosa a sfondo “biblico” come una certa sensualità rilevante dal Cantico dei Cantici; o piuttosto attraverso ciò far ripensare seppur necessario in un certo qual senso il sacrificio di Isacco ucciso dal padre Abramo (centenne), in un riscontro esemplificante il racconto come infarcito di trame e dicotomie dialettiche quali vita/paura, fede/eternità, ordine/libertà, potere/sacrificio. In cui sembianze di una storia amorosa non rechino distonie non meno “astratte” e “parsimoniose” con metodologia appropriante, al flusso del coordinamento tecnico di scena (o al Decoupage lineare o semplice che si voglia).

Di come questo tra i fattori che tengono uniti altri fattori e atti di cooperazione in una polisemia del fare teatro, provi anche in maniera estrinseca ad immaginarsi tanto nei meandri della drammaturgia (lineare o) multipla dei drammi shakesperiani, che nella diegesi correlate all’opera o allo spettacolo, e possa far chiedersi quanto convenga semplificare o complicare in buona sostanza. E negli (o tra) gli adattamenti di sorta, poter scorgerne in base alla coerenza della storia che “cambia”, l’episodica del personaggio ancorato ad un aspetto non vincolante (come detto) come fine ultimo di schemi che vi intercorrono.

Schemi che traslati in una differenza parziale tra favola e morale, racconto cronachistico (o da semiologia storica), fanno allora scivolare in modo più fluido verso il decoupage del testo dove si riannodano i fili, tanto sulla (possibile o potenziale) differenziazione caratteristica di autori come Marlowe o Brecht, che su una loro (presunta o evidente) convergenza (mai scontata) nel risultato finale, (come ad esempio) in Riccardo II .

Tipizzare dunque, in merito e ricerca d’una ambientazione, in cui aleggia seduzione, crescita di tensione ed intensità, tempo (o tempistica) musicale. In modo da scorgere tra possibili funzioni iniziali (…”Un Re aveva una figlia estremamente bella”), spiegazioni possibili e deducibili dai comportamenti narrati (specie nel rapporto pro fiaba), come pure parallele sembianze, affinità o contraddizioni, tra conclusioni “sbagliate” in prospettiva che si accavallano, ma utili a spiegarci in chiave di fiaba “biblica” appunto (proprio come nel caso citato del Cantico dei Cantici), una esclusione a priori di discorsi ideologici (in fondo al buio del discorso) del materiale narrativo.

Situazione, allora, in cui poter giustapporre tanto il sacrificio di Isacco per mano del padre Abramo, che la Francesca da Rimini nel ruolo di Ofelia nell’Amleto di Shakespeare (attraverso una tematica magari da sviscerare e da portare in superficie cara ai Preraffaelliti). O la storia di “Apelle dipinge Campaspe” che vengono ritratti nel quadro di Jacques Louis David (del 1836 in cui si riassume la storia di Alessandro di Macedonia che concede la sua dama al suo pittore preferito).

Ed in questo poter (magari) concepire anche la vicenda umana di David, prima pittore della rivoluzione francese, poi giacobino, poi con Napoleone ed in ultimo esiliato.

Tanto quanto o assieme alle fondamentali ed essenziali sembianze, che potrebbero anche avere fondanti affinità soprattutto nel riscontro storico e “teologico” della vicenda, e che vengono svelati dal discorso della fiaba del “Re Bazza di Tordo”.

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