Mine Vaganti, Özpetek plasma il suo film sul palco e regala uno spettacolo con cui ridere e riflettere

by Antonella Soccio

Non è facile trasporre un proprio “figlio”, un successo straordinario, un film amatissimo come Mine Vaganti, con un cast stellare, in uno omonimo spettacolo teatrale, questa sera in replica al Teatro Umberto Giordano di Foggia e in tournee per i teatri pugliesi nel circuito del TPP.  

Ferzan Özpetek ci è riuscito, mescolando i generi, alcuni suoi personaggi e caratteristi, puntando molto sulla commedia più che sul melò e affidando i due ruoli cult del film, quello della nonna interpretato da Ilaria Occhini e quello del padre Vincenzo Cantone, reso al cinema dall’immenso Ennio Fantastichini, due attori scomparsi, a Caterina Vertova e Francesco Pannofino.

La prima non fa rimpiangere la nonna del film, anzi, le consegna una forza intimista grazie ai monologhi scritti per lei dal regista, assai più intensi di quelli del film che si avvaleva comunque dei flashback e della magia della bellezza di Carolina Crescentini e Giorgio Marchesi nel ruolo di Nicola, il cognato, l’amore sconfinato non corrisposto, col quale la straniera, la mina vagante della famiglia disegnò il formato di pasta, la ruota pazza. Per Marchesi il regista turco nello spettacolo ha immaginato il ruolo di Antonio, che fu di Alessandro Preziosi e che l’attore svolge in maniera diligente, così come è anche media l’interpretazione di Arturo Muselli, il protagonista Tommaso Cantone, che nella pellicola è assai più sornione e profondo con Riccardo Scamarcio.

Lo spettacolo si regge su un altro registro, sarebbe sbagliato confrontarlo col film, alcune scene che al cinema sono struggenti ed indimenticabili, come il dialogo notturno tra i due giovani Tommaso e Alba, sul palco soffrono molto e forse potrebbero essere anche tagliate, ma evidentemente Özpetek non ne ha avuto il coraggio.

Lo spettacolo funziona e alla grande nel finale quando si trasforma in night club queer e quando si poggia sulla comicità di Pannofino e dei due irresistibili amici gay di Tommaso, invadendo la quiete del pubblico e sfondando la quarta parete. Siamo in Campania del distretto della pasta, anche nello slang e nella cadenza del dialetto, e non più nell’assolata Lecce dell’Apulia Film Commission: la piazza e la comunità che ride dell’omosessualità sono il pubblico stesso in platea. Sono numerose le irruzioni, sin dall’avvio, a scena aperta illuminata senza più il buio assoluto. Gli attori si rivolgono direttamente con battute agli spettatori, che vivono uno strano sdoppiamento. Lo spettacolo costringe ad interrogarsi, a guardarsi anche attorno col vicino di palco e di poltrona, ad ogni risata, scatenata dalla commedia e dal dramma vissuto dal padre che si vergogna di quanto scoperto dopo la confessione del figlio maggiore, mentre cammina in paese accanto all’altro figlio, il minore, di cui non conosce ancora l’omosessualità e i suoi segreti professionali di scrittore. Perché si ride? C’è un’omofobia latente in ognuno di noi se non si canta insieme agli attori  “Una notte a Napoli” di Pink Martini?  

Pannofino disegna per il suo personaggio una interpretazione molto distante da quella di Fantastichini, perché non ha né la sua virilità e né la sua fisicità, resta nel solco del padre meridionale arretrato che non riesce a comprendere la diversità del figlio, ma è molto comico, macchiettistico, molto in parte.

Straordinaria sul palco Paola Minaccioni, la domestica Teresa del film che a teatro viene promossa e prende il posto della madre resa al cinema da Lunetta Savino: l’interpretazione di Minaccioni è molto calzante, tiene il tempo comico ed è sicuramente una delle forze dello spettacolo teatrale insieme a Caterina Vertova e ai ruoli minori degli amici e della domestica, tutti divertentissimi e impagabili.

Una delle trovate più sorprendenti della trasposizione teatrale è la scenografia. Le quinte e il fondale realizzati con dei teli gialli riproducono l’immaginario della pasta che scende, su cui vanno immerse le mani. La pasta, la passione della nonna mina vagante. In vari punti dei due atti la discesa delle quinte crea perfettamente la suggestione elegantissima del pastificio.

Scena finale con suicidio diabetico della nonna e ballo catartico in perfetto stile ozpetekiano sulle note di Kutlama di Sezen Aksu come nel film da incorniciare. Applausi scroscianti per tutto il cast.

Cosa manca? Sicuramente lo specchio e Scamarcio che mostra la sua identità al ritmo di Cinquantamila. E non è un caso che qualcuno esca miracolosamente dal teatro cantando proprio la hit di Nina Zilli, mai accennata nelle due ore di palco.

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