«Oggi il degrado borghese è la totale incapacità di rapportarsi all’altro». Francesco Asselta e la riscrittura per il teatro de La grande abbuffata di Marco Ferreri

by Anna Maria Giannone

Era il 1973 quando al Festival di Cannes La grande bouffe di Marco Ferreri generava scompiglio, dividendo critica e pubblico. Negli anni della commedia all’Italiana, della risata senza pensieri, Ferreri irrompeva con una pellicola che urtava, un film “Insopportabile, oppure bellissimo”, come sostenne André Astoux, che decise di selezionarlo per il Festival.

Ancora oggi per La grande abbuffata non esistono sguardi indifferenti, lo si odia o lo si ama, lo si detesta per la sgradevolezza delle immagini o lo si osanna per la forza eversiva e antiborghese dei suoi contenuti. Di sicuro il film di Ferreri rimane un film di culto, fra pellicole più conosciute a firma di un regista italiano.

La storia è nota: quattro bravi signori borghesi, nel film interpretati dai quattro mostri sacri Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret e Michel Piccoli, decidono di suicidarsi mangiando fino allo sfinimento in una villa alle porte di Parigi. Un crescendo di sesso e cibo fino alla morte che arriva per eccesso di consumo, metafora grottesca della decadenza del mondo borghese che in quegli anni viveva il suo boom.

A quasi mezzo secolo dall’uscita del film Michele Sinisi e Francesco Asselta hanno lavorato all’adattamento teatrale di questa storia, realizzando una vera e propria riscrittura del testo, affidato in scena alla regia dello stesso Sinisi e all’interpretazione di Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Stefania Medri, Donato Paternoster, Adele Tirante. “Una trasposizione che indaga sul rapporto fra un sistema tuttora votato all’abbuffata indiscriminata (di informazioni, di prodotti, di opinioni, di fatti senza soluzione di continuità) e il corpo come organismo in grado di riprendere possesso del presente tornando alla sua esistenza fisiologica” spiega Sinisi nelle note di regia. Prodotto da Elsinor insieme al Teatro Metastasio di Prato, lo spettacolo che ha debuttato lo scorso giugno a Milano sarà il 4 ottobre a Torino nell’ambito di Play with Food – La scena del cibo, il primo festival di teatro e arti performative interamente dedicato al cibo. Noi di Bonculture abbiamo intervistato Francesco Asselta.

Francesco come è stato adattare al teatro una scrittura nata per il cinema? Tu pratichi entrambi i linguaggi: è la prima volta che ti capita di pensare per la scena una storia nata per il grande schermo?

Tecnicamente sì, è la prima volta. Anche se, ad esempio, il “nostro” Miseria&Nobiltà è stato ispirato anche dal film di Mario Mattòli, oltre che dall’opera di Eduardo Scarpetta. Certo, almeno per me, il cinema è un infinito deposito di immagini, di musiche e di parole, dal quale attingo a piene mani, regolarmente. Mentre il teatro è un linguaggio che ho scoperto solo negli ultimi anni. L’adattamento, che è un termine dal quale comunque da sempre diffido, è stato più ostico, basandosi il film su una quantità di cibo (e sul gusto di inquadrarlo) che sarebbe stato impensabile proporre a teatro, a meno che non si voglia vedere morti gli attori della compagnia. Alla base del cinema c’è la verità, anche nel senso della verosimiglianza: in un film devi mangiare un pollo vero, o talmente verosimile da non far notare la differenza; a teatro invece puoi far finta di mangiare un pollo di panno. Il teatro è il regno del segno.

L’opera di Ferreri era una critica acuminata ai vizi del suo tempo, come avete attualizzato questo rapporto con il presente?

La parte iniziale del film, quella per intenderci dove vengono presentati i personaggi, è talmente breve che non c’è il tempo di sostenere una “tesi”. Durante il film poi ci sono pochissimi accenni a quelli che definisci (giustamente) i vizi del suo tempo. Credo che Ferreri abbia lavorato sul non detto, su una specie di premessa teorica, patteggiandola con lo spettatore. È come se avesse detto “sai che sto parlando di te, è inutile raccontarti per filo e per segno ciò che sei diventato: e se la smettessimo di mentire? Se la facessimo finita? Se l’unica via di salvezza fosse la propria morte?”. Questo è il patto con lo spettatore. È stato il primo film di Ferreri che ho visto, è stato uno choc. Sul legame tra l’alimentazione e la vita/morte ci sarebbero da dire tante cose, ma vi invito a guardare lo spettacolo perché su questo abbiamo insistito molto (ovviamente l’invito è a anche a guardare o riguardare quel capolavoro che è il film).

Il degrado borghese di Ferreri cosa è diventato nel nostro tempo?

Dici bene, questa è una tragedia borghese. I cosiddetti ultimi, con le loro necessità primarie, difficilmente assumerebbero comportamenti e decisioni simili. Il suicidio però è trasversale ed è presente in tutte le categorie sociali e umane, anche se le ragioni alla base del gesto spesso sono estremamente diverse. Ma, e su questo bisogna insistere molto per liberarsi dalla banale ma potente tirannia dell’attenzione verso gli ultimi, ognuno vive con intensità emotiva e sofferenza la propria vita, a qualsiasi grado sociale appartenga. Per me oggi il degrado borghese è la totale incapacità di rapportarsi all’altro, al diverso: o ci auto-assegniamo un ruolo attivo di supporto verso una diversità in un certo senso “romantica” (penso ad esempio al mondo progressista sempre molto vicino, anche giustamente, agli ultimi, ma incapace di riconoscere l’autenticità dell’altro, il totalmente diverso, ad esempio nel vicino di casa che fa irruzione nel Congresso USA con le corna di bufalo in testa; oppure è una borghesia incapace e insensibile alla sofferenza degli ultimi, di coloro che sbarcano perché scappano da una guerra o dalla fame. Queste due fazioni hanno molto in comune, più di quanto possano sospettare. In comune hanno lo scegliere, scelgono brutalmente da che parte stare, e poi si irrigidiscono attraverso lo schermo ideologico, elaborando teorie, e mancando soprattutto di elasticità mentale e sensibilità.

Avete iniziato questo lavoro prima della pandemia: che tracce ha lasciato sullo spettacolo questo attraversamento?

Per ciò che mi riguarda, e parlo sia della “struttura teorica” dello spettacolo, di quel sostegno senza il quale ogni opera si sgonfierebbe, sia delle parti originali rispetto al “testo” di Ferreri e di Rafael Azcona, ho cercato di non insistere troppo sul portato emotivo della pandemia nelle nostre vite. Ci siamo ancora dentro, più che un lutto stiamo ancora vivendo la fase acuta del dolore. Perciò sono stato, ma anche Michele lo è stato nel suo meraviglioso lavoro con gli attori e la loro “lingua”, attento a non addentrarmi in qualcosa che fosse troppo approssimativa e banalmente emotiva.

Il film di Ferreri non aveva mai un intento moralizzante, nel vostro spettacolo avete mantenuto questa mancanza di giudizio?

Assolutamente si! È la forza, è la potenza di quel racconto, di quell’idea, di quel soggetto. Su questo siamo sempre stati tutti d’accordo. E per tutti intendo anche lo scenografo Federico Biancalani (con le sue intuizioni sempre brillanti) e con quello che è definito aiuto-regista Nicolò Valandro, ma che svolge una funzione molto più complessa e preziosa nel nostro gruppo ristretto di lavoro.

La grande abbuffata divise il pubblico in due opposte fazioni, sostenitori e detrattori del film. Come è andata con il pubblico dello spettacolo?

In generale oggi la reazione del pubblico è sempre più misurata. Non mancano le critiche, però a differenza delle reazioni a quel film, sono critiche “artistiche”, sono critiche rivolte a certe nostre scelte precise, e non all’impianto teorico. Oggi è rara la possibilità di raggiungere uno scandalo simile (sia pur involontariamente, senza cioè averlo previsto, perché di scandali “programmati” e annunciati come tali sono piene le stanchissime programmazioni teatrali e non solo). Ormai molti di noi sono diventati “bravi spettatori”, anche se quel tipo di bravura porta con sé il rischio del diventare abili, come dice Jep Gambardella ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

Il debutto dello spettacolo ha inglobato anche un progetto che coinvolge i social. Quale rapporto si è sviluppato fra web e scena?

Te lo dico con estrema sincerità e senza mezzi termini. Come si può fare, oggi, teatro (ma mi riferisco anche a qualsiasi altra forma d’arte) senza il coinvolgimento del web? Quanta conoscenza, quante idee, quanta vita è basata su questo tipo di connessioni? Quali eremiti ancora si professano esenti da queste contaminazioni? Vorrei tanto conoscerli, questi geni…

You may also like

Leave a Comment

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.