ricci/forte alla direzione della Biennale Teatro: “Sottrarremo al virus il suo potere inibente. Il Teatro tornerà più invincibile di prima”

by Anna Maria Giannone

Era il 2006 quando sulle scene teatrali italiane irrompeva una nuova idea di teatro, fatta di contaminazioni, rimandi continui fra alto e basso, mito e immaginario pop, sogno e disperazione. Luci al neon, corpi in equilibrio su carrelli della spesa, il discount di una periferia occidentale diventava scena per un’epica contemporanea in cui, fra bellezza e spavento, il pubblico è stato trascinato fin da subito con grande potenza. Con Troia’s Discount Stefano Ricci e Gianni Forte conquistavano il titolo di enfant prodige del teatro italiano, un epiteto duro a morire con gli anni, anche ora che il duo porterà quella stessa urgenza dell’infanzia e quello stesso prodigio artistico in una delle istituzioni più rappresentative della cultura italiana, la Biennale di Venezia. La fondazione presieduta da Roberto Ciccutto ha infatti nominato lo scorso ottobre ricci/forte alla direzione artistica della sezione Teatro per il quadriennio 2021-2024, assieme a Alberto Barbera, riconfermato per il Cinema, Wayne McGregor per la Danza, Lucia Ronchetti per la Musica.

A Stefano Ricci e Gianni Forte, dunque, il compito di traghettare il teatro italiano fuori dalla palude in cui versa in quest’anno di pandemia. D’altronde chi meglio di loro, che nelle macerie affondano la propria ricerca da sempre saprà cogliere la sfida e tracciare un’idea di ricostruzione, avviando un percorso che succede all’intenso segno lasciato da Antonio Latella.

Una tappa significativa nella carriera dei due artisti che, formatisi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico con Luca Ronconi e alla New York University con Edward Albee, in questi quindici anni hanno rappresentato il teatro contemporaneo sulla scena italiana e internazionale. Macadamia Nut Brittle, Pinter’s AnatomySome Disordered Christmas Interior GeometriesGrimmlessImitationofdeathStill Life PPP Ultimo inventario prima di liquidazione, sono solo alcuni dei titoli andati in scena in Italia ma anche in Francia, Spagna, Germania, Croazia, Argentina, Messico, ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo e guadagnando un’affezione del pubblico che raramente si incontra nelle arti sceniche. Nel 2015 lo sconfinamento nel mondo della lirica, con la direzione di A Christmas Eve a Spoleto e,  a seguire, le regie di Turandot di Puccini al Macerata Opera Festival (Premio Abbiati 2018), Le Château de Barbebleu di Bartók e Die Glückliche hand di Schoenberg al Teatro Massimo di Palermo, infine Nabucco di Verdi al Teatro Regio di Parma.

Abbiamo intervistato Stefano Ricci e Gianni Forte all’inizio di questo nuovo viaggio.

Prendete la direzione della Biennale Teatro dopo i quattro anni di Antonio Latella: cosa vi lascia in eredità?

Guidare la Biennale Teatro è un’assunzione di responsabilità su molteplici fronti. Ad una disamina dello stato teatrale internazionale, ad un’auscultazione nitida del battito contemporaneo, vanno ad aggiungersi gli obblighi (e la speranza) di portare alla luce le grammatiche di domani attraverso la sezione College. A tutto ciò si unisce la congiuntura attuale pandemica, che ha inginocchiato l’intero settore culturale: Imponendoci un’analisi di ricostruzione – sottraendo al virus il suo potere inibente e sfruttando invece la possibilità di un recupero virginale – seppur con le difficoltà economiche che la ripresa prevede, proveremo a rifondare un’architettura di senso priva dei sedimenti sclerotizzati sviluppati nell’agonia precedente il primo lockdown.

La vostra prima Biennale è programmata nell’estate 2021. Da dove inizierete il vostro percorso?

La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Anche se in questo Presente di esasperante inclinazione alla prudenza, di sudditanza ai modelli più biecamente commerciali e di una prona aderenza ai modelli dominanti, in cui la falce della Grande Livellatrice si accanisce sui lavori artistici e sulla Cultura di qualità – ritenendoli un fatale spreco di tempo e denaro – noi siamo pronti a farci travolgere dalla spirale ipnotica d’imprevedibili orizzonti, salpando alla volta di nuove deflagranti avventure. L’edizione 2021/2024 di Biennale Teatro prenderà la forma di una tetralogia, composta appunto da quattro parti con una matrice tematica differente per ciascun anno, centrata sull’esplorazione dell’Uomo oggi e delle sue complesse sfaccettature, alla maniera de la Comédie Humaine di Balzac, e legata simbolicamente ad uno specifico “colore”, un pigmento che agirà da principio attivo e ci “contagerà” emotivamente, rivelando un’altra percezione del pianeta e di noi stessi. Il colore per il 2021 sarà il Blue, inteso come accoglienza/distanza siderale dall’altro da noi: l’analisi dello smarrimento in cui stiamo precipitando, il fallimento dell’umanesimo che ne è consustanziale, il riemergere dalla calamità Covid e gli eventuali antidoti per fronteggiarlo saranno alcuni tra i binari d’indagine.

Il vostro sodalizio artistico nasce molto tempo fa, nella creazione teatrale avete un metodo consolidato di lavoro a due. Come immaginate una direzione artistica in tandem?

L’unica via possibile è la reiterata distruzione di certezze. Il nostro è quello che Gianni Rodari definiva nella sua “Grammatica della fantasia” un binomio fantastico: simili come potrebbero esserlo una ghianda ed una quercia adulta, un accostamento/ossimoro che, però, ci permette di riposizionare incessantemente il focus del proprio sguardo nel leggere il mondo; che ci costringe a deragliare dai binari dell’abitudine e – attraverso un dialogo spregiudicato innescato trent’anni fa, dopo il nostro incontro – a porre e porci umanamente ed esteticamente interrogativi che emettono una fluorescenza che non accenna a spegnersi per continuare a fabbricare indagini e stabilire nuove grammature poetiche. Un tandem di Achab ruggenti, al timone, con la brama di abbandonare l’apparente placidità della terraferma, puntando la rotta tra le spume del sogno e della fantasia per farci funambolici collaboratori della creazione.

Avete definito la vostra ricerca sul linguaggio teatrale una ricerca del “contemporaneo inespresso”: quali sono gli artisti in cui riconoscete questa stessa attitudine?

Ammiriamo i percorsi dal fascino visionario di alcuni colleghi pur con la difficoltà di instaurare rapporti approfonditi, visto il poco tempo a disposizione, impegnati come siamo tutti in un lavoro che ci costringe ad un perpetuo nomadismo. Ma il saper farci cacciare la testa nel buio, saltare nel vuoto e correre sul bordo del precipizio, l’attenzione intransigente nei confronti del ventaglio cromatico del “verbo” teatrale e nello scomporre un ritmo, il potere etico del segno scenico di Luca Ronconi restano per noi stimmate imprescindibili.

Fin dai vostri esordi avete attraversato i media con molta naturalezza: tv, cinema, teatro. Aprirete scambi anche con le altre sezioni delle Biennale? Avrete modo di lavorare assieme agli altri direttori?

Per rompere la catena e non cadere della routine stilistica, rimanendo sospesi come le ninfee di Monet fra possibilità ancora misteriose e inespresse, appronteremo cantieri di progettazione e scambio, laboratori alchemici di sperimentazione e di idee, getteremo ponti con le altre sorelle e fratelli di Biennale, ibrideremo arcipelaghi linguistici/visuali/acustici/materici per ninnare lo spettatore permettendogli così di avere accesso a fertili cartografie per esplorare terre sconosciute.

La Biennale College costituisce un tassello rilevante della Biennale, quello formativo, pedagogico. Quale la vostra visione di questo aspetto?

I giovani devono avere la possibilità di poter esprimersi, senza condizionamenti o scorciatoie mediate dalle leggi di mercato. È corretto, inoltre, creare piattaforme di confronto, perché nella quasi totalità dei casi l’artista ha un’attitudine solitaria e deriva dai numerosi affluenti sconosciuti la possibilità di mettere alla prova, identificare e temprare la propria rotta. Il nostro compito è quello di riconoscere le grammatiche di domani, il rischio di impresa che all’inizio inevitabilmente pagherà in latitanze e sgomenti da incomprensione, come è stato per diversi grandi artisti di oggi. Ma non è l’Oggi lo scopo del College; semmai quello di guardare oltre la siepe di un alfabeto rassicurante e perimetrato, seppur nell’alone di ricerca dentro il quale   – generazionalmente – i giovani vengono assiepati, per individuare contenuti e forme in trasformazione come il tempo che abitiamo.

Il pubblico vi ama, i vostri spettacoli riescono sempre a creare uno scambio emotivo forte con chi vi partecipa. Come si costruisce una relazione così forte? Come immaginate di farlo anche in qualità di direttori artistici?

Quello con il pubblico è un confronto ininterrotto, un sistema di perlustrazione dei fondali per raccogliere spunti di riflessione che ci riguardano tutti: la qualità del rapporto che lentamente è maturato è frutto di un rigore e di una coerenza che, provvisti di fiammiferi asciutti, hanno setacciato – in questi anni – le trasformazioni del nostro quotidiano; un senso, un dubbio, un malessere, una visione di abisso che nella mutazione delle linee esteriori racconta il pervicace riconoscimento del nostro alveo morale. Lo stesso filo di ragno che tesseremo per trovare una rotta veneziana nella quale, noi e gli altri, ardiremo a ritrovare la nostra sembianza riflessa attraverso la sfocatura degli ultimi flagelli antropologici.

Lavorate molto all’estero. Ci sono esperienze culturali che, a vostro avviso, mancano ancora in Italia?

Il nostro Paese, seppure profondamente cambiato, nel profondo resta sempre lo stesso: conformismo, arroganza, ingiunzioni politiche e morali imposte al mondo dalla legge di una singola volontà che fa solo bella mostra di se stessa: allucinanti parodie della giustizia e della cultura liberal totalitaria doppiogiochista. In assenza d’ossigeno, in questa presente dispnea espressiva italica, in Francia riusciamo a non boccheggiare. Non si tratta di abbandoni ma di riconciliazioni con la propria emergenza. Qui il teatro continua ad avere una funzione di servizio pubblico per la società ed è fondamentale nella vita quotidiana del popolo e per la crescita dello Stato. In Italia interessa sempre meno porre l’attenzione su una progettazione artistica: in un momento così debilitante da un punto di vista anche economico, gli operatori si stanno trasformando in mercanti, e nel commercio contano i numeri, non la qualità di quello che viene elaborato. Questo è un processo involutivo, depauperante, perturbato o, nella migliore delle ipotesi, contrassegnato da un sigillo d’inerzia che, di questo passo, ci farà sprofondare in un baratro.

Ultimamente avete curato alcune regie di teatro musicale. Come è stato misurarsi con l’Opera?

Il naturalismo dominante, il chiacchiericcio diffuso che fagocita il rito teatrale, ha necessità di nutrirsi di sogno, di codici che permettano di accedere ad anticamere di coscienza arcaiche. L’Opera ne è veicolo. Superando le colonne d’Ercole di una diffusa attitudine antiquata musicomane, che predilige l’aspetto decorativo e votivo del libretto, una innata curiosità intellettuale ed emotiva permette alla musica di entrare in contatto con il divino di cui siamo permeati e troppo spesso dimentichi. La forza di questo strumento espressivo è dunque foriero di panorami morali che vanno riportati in luce spazzando via le montagne di sabbia e restituendo i faraoni alla luce vitale del pianeta Sole.

La chiusura forzata dei teatri ha creato un’esplosione di contenuti digitali. Anche molti artisti hanno provato a utilizzare il mezzo in maniera nuova. C’è qualche esperimento che vi ha convinto?

Il “Marino Faliero” allestito lo scorso novembre per il pubblico del Teatro Donizetti di Bergamo ha vissuto le contraddizioni di un accanimento governativo, giustificato dalle emergenze sanitarie, che ne ha limitato la fruizione destinandolo ad un’audience televisiva. I linguaggi, però, non sono sovrapponibili. Si può staccare il cavallo da una giostra e ipotizzare che possa galoppare in autostrada? O meglio ancora, come poter alimentare un amore verso il mare adottando una boccia coi pesci rossi in cucina? Non crediamo al teatro online, se non inteso come documento d’archivio, testimonianza. Come non esistono dvd di liturgie religiose che soddisfino i fedeli riuniti per la funzione nel salotto di casa, così non è soddisfacente un idioma che si nutre esclusivamente di respiro, di presenza, di nitore e comunanza quando, invece, balbettato a colpi di telecamere: la Netflix della Cultura è una facezia da osteria se, avventatamente, la si ipotizzasse come sostitutivo valido di un’urgenza umanistica. Seneca non ha mai avuto bisogno di consigli per gli acquisti, tanto meno adesso: ecco perché il Teatro tornerà più invincibile di prima.

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