«Un teatro transgenerazionale, abitato per 24 ore e con la testa in Europa». Il lavoro di scavo dell’architetto e scenografo Luca Ruzza per una Ruvo accogliente

by Anna Maria Giannone

Quando in tutto il mondo i luoghi di cultura sono privati della propria ragione fondante, la relazione fra persone, la notizia di un nuovo teatro che nasce e, soprattutto, che avvia il suo percorso di luogo abitato assume una portata simbolica quasi eroica.

Così Ruvo di Puglia ha scelto proprio la data del 27 marzo, quella Giornata Mondiale del Teatro che, da celebrazione della ripartenza si è dimostrata attestazione di un nuovo fallimento, per presentare il suo nuovissimo Teatro Comunale realizzato grazie al “Bando Radici e Ali”, promosso dalla Regione Puglia con l’intento di valorizzare e riqualificare attrattori culturali e naturali del territorio regionale.

Protagonisti di questa rinascita la Compagnia La Luna nel Letto/Tra il dire e il fare e il Comune di Ruvo di Puglia, grazie al cui cofinanziamento si realizza nella città pugliese “Un sogno lungo trent’anni”.

Così racconta Michelangelo Campanale, che con la sua compagnia ha piano piano gettato i semi di questa piccola rivoluzione culturale grazie alla relazione costante con la comunità, il territorio, le istituzioni. In questo pezzetto di Puglia dove il teatro non c’era, il nutrimento costante portato da una compagnia “residente” ha creato le condizioni per la nascita di uno degli spazi culturali più europei del Sud Italia.

A progettare il nuovo spazio comunale di Ruvo Luca Ruzza, architetto, scenografo, docente universitario romano nel cui percorso si intrecciano la progettazione architettonica e la profonda conoscenza del teatro dal suo interno. Il legame di Ruzza con la Puglia è cosa antica e nasce dalla stretta collaborazione artistica con il Teatro Kismet di Bari e con i Teatro Koreja a Lecce, nato proprio su suo progetto e ristrutturato sempre con il bando “Radici e Ali”. Ancora la firma di Luca Ruzza e del suo gruppo Open Lab Company si trova nella realizzazione del Nuovo Teatro Abeliano a Bari e in tantissimi altri spazi performativi in tutta Italia e non solo, oltre che in scenografie e installazioni realizzate in tutto il mondo, con un legame speciale con il Giappone e i teatri di Tokyo.

Noi di bonculture l’abbiamo intervistato.

Il suo lavoro di progettazione si innesta su un lungo percorso artistico della Compagnia La Luna nel letto nel territorio. Come avete interagito per la realizzazione del progetto?

Il progetto nasce da una lungimiranza, una situazione abbastanza irripetibile resa possibile dal bando “Radici e Ali” in Puglia. Senza questa idea di investire sul territorio questo teatro non ci sarebbe. Il lavoro coinvolge molte persone, io sono parte di un gruppo di progettazione assieme al quale avevo già lavorato per altri teatri in Puglia. D’altro canto, il mondo del teatro è una rete molto fitta: Michelangelo Campanale della compagnia La Luna nel letto si è formato per molti anni al Kismet di Bari, realtà che io conosco molto bene perché con l’attuale direttrice artistica Teresa Ludovico condivido un percorso molto lungo che ci ha portato a lavorare assieme in Giappone. Insomma, il contatto con la compagnia era antico, poi con il bando ci siamo effettivamente conosciuti e abbiamo avviato il lavoro assieme.

La progettazione dello spazio si è innestata su una relazione già ben avviata con la comunità. Che situazione ha trovato a Ruvo?

A Ruvo ho trovato una situazione fertile: una compagnia molto radicata nel territorio, anche grazie al grande lavoro quotidiano con i bambini, ma anche molto proiettata oltre i confini, grazie alla grande mobilità dei suoi spettacoli. Lavorare in questa realtà ha significato innanzitutto intercettare quello che la compagnia aveva già ben in mente: l’idea di un teatro come un posto accogliente per chi vive nel territorio, transgenarazionale, con la testa in Europa. Quello degli architetti è un lavoro più antropologico che strutturale, la nostra è un’architettura di servizio come ho già illustrato nel libro “Architetture scalze. Ecoteatri sostenibili + altre storie” (Bordeaux, 2020). Io faccio lo stesso mestiere di Michelangelo Campanale, realizzo le scene, e questo mi permette di progettare e preoccuparmi di tutta una serie di aspetti che sono legati ai mestieri del teatro. Il teatro dovrebbe costruirlo chi lo fa.

Per quali esperienze è stato pensato questo spazio?

È uno spazio pensato per esperienze residenziali. Prima eravamo abituati all’idea di un teatro di rappresentanza, occupato giusto il tempo di uno spettacolo. Qui, al contrario, siamo partiti dall’idea di uno spazio abitato, possibilmente per 24 ore. Oltre ai luoghi per lo spettacolo ci sono gli spazi per i laboratori, il foyer, una zona all’aperto per i bambini, la cucina, il bar: tutta una serie di funzioni che permettono esperienze diverse, anche in contemporanea, e un utilizzo degli spazi durante tutta la giornata. Abbiamo progettato, e sarà realizzata in futuro, anche la foresteria.

Pensando invece agli artisti, quali le caratteristiche di questo luogo pensate per stimolare la creazione?

Andy Warhol diceva che la grande opportunità per un artista è possedere uno spazio completamente vuoto perché può essere riempito, contaminato. Abbiamo fatto un lavoro di scavo. Il palco è uno dei più grandi in Puglia, con una grande vetrata, voluta da Michelangelo Campanale, da cui si vede il mare. È luogo molto grande, attrezzato, acusticamente fantastico, in cui la voce arriva naturalmente fino all’ultima poltrona. C’è, oltre lo stage, un altro spazio più piccolo, tutto bianco, che fungerà da foyer durante gli spettacoli ma di fatto è anche a servizio degli artisti perché potrà accogliere operazioni più installative. Quello di Ruvo è un grande teatro vuoto, generoso, molto dotato dal punto di vista tecnologico con una serie di arguzie legate alla luce, al suono. Ogni luogo è acusticamente separato in modo che possano convivere attività, più artisti di natura diversa. In un’altra zona c’è poi un grandissimo spazio laboratorio per la produzione, pensato per essere utile a tutte le figure coinvolte in questo processo: non solo attori e registi ma anche scenografi, light designer, tecnici, costumisti.

Come si lega il teatro al resto della città?

Il progetto si innesta su uno sviluppo generale di tutta quella parte di Ruvo in cui sorge. Il grande stradone che porta a teatro diventerà un’isola verde con piste ciclabili e rientra in uno sviluppo complessivo della città verso il mare.

In che modo la struttura di un teatro può stimolare la relazione con la comunità e veicolare l’idea di luogo aperto a tutti?

L’archetipo del teatro è quello di un luogo di formazione ciclica, in Grecia era un luogo in cui capire come andavano le cose, quali erano le leggi, quale era la morale condivisa. È importante scardinare l’idea di teatro come luogo chiuso. A Ruvo il pubblico entrerà dal palco, il teatro è stato pensato come un luogo aperto alla città ma allo stesso tempo protetto perché ci sono una serie di elementi che permettono di viverlo in una condizione di sicurezza: non ci sono ostacoli, gradini, barriere. È un luogo innestato nella città, senza muri. In un tessuto urbano come quello di Ruvo il teatro è un giardino, un boschetto. Abbiamo usato un sistema giapponese con bacchette di larice per il perimetro esterno, in modo che non si abbia la sensazione di essere davanti a un muro invalicabile ma quasi a una foresta, che traspare attraverso questo tessuto. Uno spazio avventura: come per tutte le foreste bisogna conoscerne le leggi ma, una volta dentro, si è al sicuro.

Lei viene da un lungo percorso di lavoro in Giappone. C’è un teatro con cui lavora che reputa un luogo di ispirazione?

Il Teatro Za Koenji di Tokio è una macchina teatrale, un posto meraviglioso al cui interno si possono trovare tutte le caratteristiche ideali che noi cerchiamo sempre di riprodurre nelle nostre progettazioni teatrali: la possibilità di svolgere attività in contemporanea, senza limiti reciproci, la presenza di luoghi comuni, di incontro e, ancora, la relazione con il tessuto urbano. La cosa meravigliosa del Giappone è la possibilità di pensare per frammenti: noi abbiamo sempre bisogno del grande urbanismo, dei grandi piani regolatori. In Giappone le cose si fanno a pezzetti, come i piccoli tempietti shintoisti che trovi per la strada, un piccolo spazio in cui c’è tutto il mondo. Un altro aspetto di forte ispirazione è la copertura esterna del Za Koenji: la pelle di un edificio è un fatto importante, è come la nostra pelle. Incontri l’altro da te attraverso lo sguardo ma è attraverso il contatto fisico che amiamo. La pelle di un teatro deve creare la voglia di toccarlo.

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