La regina degli scacchi, un romanzo di formazione (e affermazione) di una donna in un mondo dominato dagli uomini

by Nicola Signorile

Vi viene in mente qualcosa di più noioso che guardare in televisione due persone che giocano a scacchi? Scommetto di no. Costruirci su sette episodi di una miniserie poteva sembrare una vera follia, un azzardo destinato alla nicchia. Invece La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit in originale), disponibile dal 23 ottobre su Netflix, sta battendo tutti i record della piattaforma, grazie soprattutto a un personaggio molto ben costruito e al magnetismo di Anya Taylor-Joy, l’attrice che lo incarna epidermicamente. Con la serialità breve Neflix ci ha abituato a exploit simili: titoli poco supportati da marketing e pubblicità che esplodono tra le mani del colosso di Los Gatos, si pensi a Unorthodox.

La regina degli scacchi non è un capolavoro, ma ha molti degli attributi necessari per piacere al pubblico del 2020. Uno show immerso nell’estetica degli anni ’60, molto curato nelle scelte di scenografia, fotografia e costumi (per gli amanti della moda un vero tripudio). Un romanzo di formazione (e affermazione) di una donna in un mondo dominato dagli uomini. La storia di un underdog che mette sotto tutti contando solo sulle proprie forze.

La regina degli scacchi è il coming of age di una persona non comune, un genio degli scacchi. Elizabeth Harmon non ha le stimmate della predestinata: orfana che cresce in un orfanotrofio dalle tinte horror. Il suo talento sboccia in un cupo scantinato, grazie a un burbero custode con la passione per gli scacchi che intravede subito le doti della piccola Beth. Già in tenera età ci mostra quanto sia difficile crescere normalmente quando si possiede un talento fuori dal comune. Il prezzo del genio è uno dei concetti chiave della miniserie, diretta e scritta (con Allan Scott) da Scott Frank, sceneggiatore candidato a due premi Oscar (per Logan e Out of Sight, ma tra i suoi lavori ricordiamo anche Minority Report).

Alla base c’è il romanzo omonimo del 1983 di Walter Tevis, autore che ha spesso indagato l’ossessione e le dipendenze, da L’uomo che cadde sulla terra a Lo spaccone. I demoni interiori sono il prezzo da pagare. Le bambine alla Methuen Home vengono sedate ogni giorno. Le pillole verdi diventano una sorta di carburante per lo straordinario cervello della protagonista che “vede” tutte le notti le mosse su una gigantesca scacchiera sul soffitto della camerata.

Beth lotta contro se stessa, prima che contro i suoi avversari. L’ossessione per il gioco e la dipendenza dai tranquillanti, e in seguito dall’alcol, la portano sull’orlo dell’autodistruzione. Ma la narrazione non prende mai una piega seriosa o patetica, mantiene la struttura da dramma pop condito da un sottile umorismo. La protagonista cerca di trovare un posto, di connettersi agli altri, ma riesce a farlo solo con l’amica Jolene (Moses Ingram), un’altra diversa, bambina nera in un collegio di bianche, che non verrà mai adottata e con il signor Shaibel: loro due sono la cosa più simile a una famiglia per Beth.

Il custode è l’inizio di tutto, colui che apre la porta al prodigio. Il primo essere umano a stabilire una relazione con lei, a capire il funzionamento di una intelligenza speciale capace di scompaginare, memorizzare, prevedere e proiettarsi in avanti con incredibile rapidità. Shaibel è anche la figura paterna di cui ha bisogno, qualcuno che finalmente può dirle di no. A interpretarlo un attore speciale, Bill Camp, uno di quei caratteristi americani in grado di aggiungere sempre qualcosa ai suoi personaggi, da Leftovers a The Night Of, fino ai recenti The outsider e Cattive Acque di Todd Haynes.

Non c’è niente da sapere sugli scacchi per guardare e appassionarsi alle vicende di Beth; a tenerci incollati a re, regine e alfieri sono piuttosto gli occhi sgranati e maliardi che infilzano i malcapitati rivali, le movenze eleganti, i silenzi di Anya Taylor-Joy nella sua frequente solitudine lenita dall’alcol. Davanti agli scacchi è sicura di sé, il gioco è qualcosa che impara presto a controllare. La 24enne ex-modella americana, di origini argentine e britanniche, non aveva alcuna conoscenza del gioco, ha imparato le sequenze a memoria, come le coreografie negli anni di danza classica. Le partite sono pensate per non annoiare il pubblico, ognuna ha un suo mood differente: alcune sono flirt con l’avversario, altre sono risse da bar, altre ancora un trip allucinato, in altre leggiamo i suoi turbamenti. La regia di Frank e il montaggio di Michelle Tesoro donano dinamismo e una certa tensione ai match a prova di professionista: per renderli credibili sono stati coinvolti scacchisti come Bruce Gandolfini e Garry Kasparov, il più famoso giocatore di tutti i tempi, anch’egli bambino prodigio.

Beth è diversa da chiunque altro. Lascia l’orfanotrofio solo grazie al bisogno di compagnia di una casalinga del Kentucy con un marito assente. La signora Alma, interpretata con empatia dalla sensibile regista di Copia originale e Un amico straordinario Marielle Heller, è la classica moglie annoiata e repressa degli Usa anni ’50-’60 (ricordate la Betty Draper di Mad Man?). Alla ricerca di qualche scossone alla routine, diventa l’alleata perfetta per la scalata di Beth, assistendola nei continui alti e bassi. Amica, manager, compagna di bevute, col tempo anche madre. I tornei si susseguono, fioccano le vittorie e i premi danno di che vivere alla giovanissima campionessa che lentamente si trasforma in una donna sensuale ed eccentrica, attratta dal glamour e dai bei vestiti.

Attrae e respinge al tempo stesso, a causa della vulnerabilità che increspa la sua personalità in formazione. Sfrontata nel gioco, passa di vittoria in vittoria lasciando di stucco un mondo chiuso, tradizionalista che la sottovaluta. Le donne negli States degli anni ’60 devono essere angeli del focolare o poco più. Beth è indipendente e non ha bisogno di un uomo accanto per provvedere a se stessa e auto-affermarsi. Tanto sicura “sul ring” quanto inesperta nella vita reale, sensibile e ferocemente competitiva, il suo mondo interiore ricco di contraddizioni si apre agli spettatori attraverso la finestra spalancata degli occhioni della Joy: non si riesce a smettere di guardarla, l’attrice racconta la storia anche nei momenti di silenzio, quando è sola in casa, in camere d’albergo a Parigi o a Las Vegas, quasi sempre con un bicchiere in mano, mentre si esercita o studia le partite dei maestri.

Una donna che per completarsi non ha bisogno della relazione con un uomo. Ci provano in molti. Lei è il sole, gli uomini i pianeti, attratti e respinti. C’è Benny Watts (Thomas Brodie-Sangster), il presuntuoso campione statunitense, così lontano dallo stereotipo del giocatore di scacchi, una persona nella quale Beth si specchia, lo sente vicino per il modo simile in cui funzionano i loro cervelli. In un viaggio in auto Beth chiede a Benny se anche lui si gioca le partite nella testa; di lì in poi si sfideranno in auto a colpi di mosse immaginarie giocate su una scacchiera che non c’è. Poi c’è Harry Beltik (Harry Melling), lo sparring partner e il bel Townes (Jacob Fortune-Lloyd), l’amore non corrisposto.

Satelliti, che però diventeranno la sua famiglia, in vista della conclusiva trasferta a Mosca in casa dei più forti. Incursione in terra sovietica che è occasione per osservare con ironia il patriottismo d’accatto condito di cieco anticomunismo degli americani dell’epoca. In casa di Vasily Borgov (Marcin Dorocinski), l’unico che spinge Beth a superare i suoi limiti, a smettere di sabotarsi. Nessuno può farcela da solo, neanche con il cervello di Elizabeth Harmon.

Tra un gambetto di donna (il queen’s gambit del titolo) e una difesa alla siciliana, scenografo (il tedesco Uli Hanisch di Babylon Berlin) e direttore della fotografia (Steven Meizler) danno vita ad ambientazioni diverse, con palette di colori differenti per ogni torneo rigorosamente rispettate ed elementi che rubano la scena di volta in volta (la scacchiera, gli orologi, lo sfidante, il pubblico che con che le reazioni sottolinea l’importanza di certe mosse). Funzionale il modo in cui viene usata la luce naturale anche in ambienti chiusi, fioca nel buio seminterrato dell’orfanotrofio o vistosa quando filtra dalle finestre della casa, quasi che ogni ambiente riflettesse la vita interiore dei personaggi. Déco estremamente curati e accurati nella ricostruzione storica, a cominciare dall’abitazione nel Kentucky, le tappezzerie, i quadri alle pareti, il televisore, le carte da parati ci raccontano qualcosa dei personaggi, si connettono a loro.

Importantissimo l’utilizzo narrativo che Scott Frank, con l’ausilio della costumista Gabriele Binder, fa del look di Beth. Una donna che sta cercando se stessa in un ambiente di uomini non ha modelli da seguire. La ricerca la porta a cambiare continuamente, si definisce molto per quello che indossa. Gli abiti raccontano una crescita: i maglioncini nello stile più conservatore degli anni Cinquanta lasciano il posto ai blue jeans che cambiano la vita di Beth per sempre.

Poi ecco il glamour e gli abiti alla moda sixties, con cui si omaggiano icone del periodo, da Jean Seberg a Edie Sedgwick, fino a Jackie Kennedy e ai suoi cappottini. I vestiti a trapezio, i colletti Peter Pan, tubini e bluse, il black & white che rimanda alla scacchiera, fino a quando, finalmente a suo agio, la nostra passeggia per la gelida Mosca nel lungo cappotto bianco con cappello bianco. Con trucco e parrucco a seguire lo stesso percorso di crescita, dapprima rigorosi, poi via via, dopo un momento di imbarazzo dovuto al cambiamento, sempre più raffinati e in tono con gli outfit. Cangiante come la colonna sonora di Carlos Rafael Rivera che passa da Satie alla psichedelia, da Gabor Szabo alla scatenata Venus degli Shocking Blue che dà la scossa a Beth. Ispirazione e dannazione, trance da sostanze psicotrope e disagio sociale, è emozionante vedere all’opera un talento come quello dell’attrice Anya Taylor Joy, che gli amanti dell’horror scoprirono in The Witch e che vedremo all’opera in The Northman, ancora diretta da Robert Eggers, in The New Mutant della Marvel e come protagonista del nuovo spin-off della saga Mad Max nei panni di Furiosa, ruolo interpretato nella versione adulta da Charlize Theron.

É nata una stella.

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