“Marta, il delitto della Sapienza”, la voce e i sogni di una studentessa uccisa quando ancora tutto era possibile

by Antonella Soccio

L‘edizione 2023 della classifica QS World University Ranking, resa pubblica l’8 giugno 2022, ha colloca la Sapienza tra le migliori 200 università a livello mondiale. L’Ateneo si è posizionato al 171mo posto a livello mondiale e al terzo posto a livello nazionale, dopo il Politecnico di Milano e l’Università di Bologna. Si conferma così l’ottimo posizionamento già raggiunto nella classifica 2022.

Analizzando i singoli indicatori, cresce il parametro relativo alla Academic Reputation – ossia la reputazione della Sapienza negli ambiti accademici internazionali – con un aumento del punteggio e il mantenimento della 74esima posizione a livello mondiale.

Un risultato eccezionale per una mega Università statale che solo 25 anni fa per diversi mesi fu associata ad un fatto di cronaca terribile, l’omicidio della giovane studentessa Marta Russo.

Era il 9 maggio del 1997 quando un colpo di pistola partì dalla finestra al primo piano della palazzina di Giurisprudenza ferendo e uccidendo una laureanda.

Alle 11.40, la ventiduenne attraversa la cittadella universitaria in compagnia di Iolanda Ricci, una sua compagna di studi. La ragazza cade a terra, colpita e subito scattano i soccorsi. Ma non c’è niente da fare, Marta muore cinque giorni in terapia intensiva, sotto lo sguardo di dolore dei genitori e della sorella.

Dal primo agosto su Netflix è disponibile l’intenso documentario Rai di due episodi diretto da Simone Manetti e scritto da Emanuele Cava, Gianluca De Martino, Laura Allievi “Marta, il delitto della Sapienza”, che ricostruisce il caso e che soprattutto, essendo tratto da libro della sorella di Marta, racconta la figura e i sogni della studentessa, attraverso alcuni suoi diari trovati molti anni dopo la sua morte. A 25 anni dall’assassinio, rimasto ancora senza il ritrovamento dell’arma del delitto e senza movente, nonostante le pene lievi inflitte ai due assistenti della Cattedra di Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza Giovanni Scattone, accusato di omicidio doloso aggravato dai futili motivi, che avrebbe premuto il grilletto e Salvatore Ferraro per favoreggiamento, il docufilm ripropone l’ansia di quei giorni, il lavoro certosino delle prime indagini svolte dal dirigente della Squadra Mobile Nicolò D’Angelo coordinato dal sostituto procuratore Carlo Lasperanza, che aveva in Italo Ormanni il procuratore capo.

Insieme ai ricordi dei genitori e della sorella, il documentario dà voce anche ai cronisti dell’epoca, Paolo Brogi e Carlo Bonini, che ebbe anche un ruolo chiave nell’indagine con lo svelamento di una sua fonte giornalistica che si rivelò una delle testimoni chiave.

La miniserie ha il merito di narrare, senza fronzoli e senza una eccessiva categorizzazione o demonizzazione, il caso giudiziario che ne derivò e che incollò i cittadini alla tv.

I due assistenti dalla stanza 6 spararono per mettere in atto il delitto perfetto e per dare un palcoscenico alle loro teorie nietzchiane? È possibile. O è stato solo gioco finito male? Non lo sapremo mai. Il regista non fornisce una lettura ex post dei fatti. Si insinua anche un filo di dubbio dopo 25 anni, nel riproporre la freddezza di Scattone e il narcisismo di Ferraro. Mai un pentimento da parte loro, mai una parola fuori posto che potesse anticipare una confessione. È come se il docufilm li delineasse ancora una volta imprigionati nei loro personaggi accademici, di carta, dentro il meccanismo dei codicilli del delitto perfetto insoluto per mancanza di prove e movente.

È commovente invece l’altro piano, seppiato e rallentato, della narrazione, quando la voce narrante (Silvia D’Amico) diventa la piccola Marta, mentre scrive il suo diario. Nella fiction del racconto diaristico la vediamo al mare, nella sua cameretta, al parco e poi al liceo, all’università. Da bambina fino all’adolescenza Marta tenne delle pagine segrete in cui annotava i suoi pensieri, le sue riflessioni. Ed è quasi incredibile conoscere oggi quei ragionamenti di ragazzina, così maturi, profondi e inconsciamente consapevoli di un futuro che sarebbe stato misterioso e drammatico. È una ragazza degli anni Novanta, con un buco nero grunge dentro e un cuore aperto al domani con mille aspirazioni che ancora si ritenevano possibili, quando la vita reale era fuori dagli schermi, all’interno di parole che venivano rimasticate e rielaborate la sera sulla carta. O alla cornetta di un telefono, con l’amica del cuore. Le immagini restavano appiccicate nell’anima, avevano bisogno di più tempo di uno scatto istantaneo sui social che muore in 24 ore.

È questo ripercorrere quella gioventù il valore più grande del docufilm, che recupera le emozioni dei familiari di Marta Russo.

Tra le cose da segnalare della miniserie c’è anche il ruolo delle donne. Sono loro a parlare, ad essere i teste chiave del processo. Gabriella Alletto, Maria Chiara Lipari e l’altra studentessa. Loro si contrappongono al rigido e cattedratico atteggiamento dei due imputati. La verità, i sentimenti femminili vincono la sfida della geometria armata e mortifera del pensiero maschile.

Assolutamente da vedere per recuperare lo spirito di quegli anni, in cui spesso il gioco, le elucubrazioni mentali, le paranoie e le perversioni intellettuali, troppo dotte e troppo oscure e senza rispecchiamenti tecnologici, sconfinavano facilmente nella morte.

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