Our Planet e il lato naturalista di Netflix

by Fabrizio Stagnani

Per chi è cresciuto con Giorgio Celli, Piero Angela, Licia Colò, Francesco Petretti e Sveva Sagramola sembrava che non ci potessero essere più speranze di vedere qualcosa di nuovo nell’universo dell’audiovisivo naturalistico, e invece il 5 aprile l’avvento su Netflix della serie “Our Planet”.

Non che, appunto, sul nostro pianeta siano arrivate nuove specie aliene che hanno consentito il rinnovamento dei protagonisti dei documentari dedicati a flore e faune terrestri, ma cambia il modo di metterli al centro della scena. Il copione resta affidato a gnu assaliti da licaoni o caribù da lupi, alla catena alimentare fitoplancton-zooplancton-acciughe-delfini e sule, krill contro megattere, così come a tutte le altre magnificenti creature che ancora sopravvivono sul terzo corpo celeste del nostro sistema solare. Gli scenari comprendono distese di acqua che si alternano a terre emerse, le scenografie vedono avvicendarsi floride foreste ad aridi deserti, abissi a cieli affollati di stormi, vertiginosi rami svettanti e radici marcescenti colonizzate da truppe di formiche. A chi ha dedicato almeno due ore a settimana della propria vita davanti ad uno schermo per lasciarsi affascinare dalle riprese, registrate sino a “ieri”, dedicate a tutto questo, potrebbe anche non bastare, ma dai primi fotogrammi di questa serie tutto convince ad arrivare all’ultimo dell’ultimo episodio. 

La firma è quella dell’inglese Alastair Fothergill, la voce narrante anglosassone del leggendario David Attendorough, in Italia soppiantato dal rassicurante direttore del doppiaggio Dario Penne. Superfluo commentare la colonna sonora affidata a Steven Price. I numeri impressionanti, quattro anni di lavoro, tremila trecento settantacinque giorni di registrazione, quattrocentomila ore di monitoraggio con video trappole, seimila seicento ore di droni in volo, novecento undici giorni in mare, duemila ore sott’acqua, seicento troupe in viaggio per più di duecento viaggi. Sul tutto la collaborazione del WWF.

Dov’è l’innovativo? Facile a dirsi nelle tecnologie di supporto al lavoro, ma soprattutto un approccio fortemente critico dei contenuti. Prima le immagini straziano per il loro sconvolgente splendore dato dai soggetti, il modo di riprenderli e dal livello di definizione con il quale vengono diffuse, e poi la voce fuori campo picchia duro, terrorizza e colpevolizza raffinatamente lo spettatore all’idea di perdere tutto il bello, magari appena scoperto, a causa degli eccessivi abusi della specie più pericolosa, quella umana. Gli intenti sono dichiarati nel primo inciso meta-audiovisivo: “Questa serie celebrerà quelle meraviglie naturali rimaste sul pianeta che ci mostrano ciò che dobbiamo preservare per assicurare prosperità alla natura e all’umanità!”.

Negli otto episodi ci si va anche a focalizzare sui drammi ambientalistici che sono inequivocabilmente connessi con la nostra vita, pure se ancora non ci rendiamo conto di quanto presto ci travolgeranno le loro conseguenze. Potrebbe dare l’idea dei contenuti la citazione, da immaginare su scene di mastodontici ghiacciai che si sgretolano come un ghiacciolo ad agosto sotto gli incisivi di un adolescente, tipo: “Agli antipodi del pianeta giacciono le immense distese ghiacciate dell’Antartide e dell’Artide. Sebbene possono sembrare luoghi remoti a molti di noi, la stabilità di questi deserti ghiacciati è cruciale per la vita sul pianeta. In appena settant’anni però i cambiamenti sono stati terrificanti. Le regioni polari si stanno scaldando più rapidamente di qualsiasi altro luogo. L’Artide, a Nord, è un oceano ghiacciato e la banchisa da cui dipende tutta la vita qui sta scomparendo!”

La morale in “Our Planet” non è servita in maniera retorica, né greve, ma utile. Immagini e testo portano a pensare, a riflettere consapevolmente sulle scelte ed azioni di ogni giorno. Il silente obbiettivo è anche quello di ricordarci di ridimensionarci, cambiare l’egocentrismo con l’eco-centrismo. La maieutica ecologista è nell’incanto di vedere un manachino capirosso o quello coda di rondine, lo stupore di vedere la prima volta un rarissimo leopardo nebuloso, o la disperazione nel sapere di centomila trichechi da una tonnellata arroccati l’uno sull’altro su di un’isola scoglio perché ormai la banchisa polare è quasi inesistente e non sanno più dove alloggiare, o infine sentirsi finalmente, non più onnipotenti, ma bensì umili, infreddoliti ed inermi al cospetto di una parete di ghiaccio. Una parete di settantacinque milioni di tonnellate di acqua allo stato solido, che mai sia si sciolga poiché altrettante sarebbero le coste che si andrebbero ad inabissare. Con “Our Planet” si è nella scena fisicamente e significativamente. Attorno ad uno schermo ad alta risoluzione audio-video ci sarebbe da riunirsi in comitiva, preparare qualche bio snack, aprire Netflix e partire a tutto volume con la maratona degli otto episodi…aspettando la prossima serie!          

Quello che faremo nei prossimi vent’anni determinerà tutta la vita sul pianeta, questa serie esplorerà gli habitat più importanti del pianeta, e celebrerà la vita che ancora ospitano. Mostreremo ciò che deve essere protetto in vista di un futuro in cui l’umanità e la natura possano prosperare.

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