Davide Grittani, operaio edile che entra nelle crepe: La bambina dagli occhi di oliva smaschera muri

by Giammarco Di Biase

Provo a pensare a Davide Grittani. Prima come persona, non solo perché l’ho conosciuto, ma perché lo facciamo tutti, innegabilmente, quando ci accostiamo ad un’opera. Vediamo la copertina per l’ultima volta, lo scrittore, la scrittrice, ci risultano umani, abbaglianti per strada che accendono un passaggio, una strettoia, qualcosa che adesso, possiamo dirlo, ci sembra una strada molto più semplice da perseguire.

Costatiamo ancora l’indice, rimuginiamo sulla frase esposta dietro, quella che abbiamo utilizzato come scusa per renderci partecipi di un acquisto, aforisti tutti e agiati del mondo e delle proprie debolezze: acquistiamo le idee, acquistiamo il mito che in quel momento ci sembra essere un libro, acquistiamo ciò che pensiamo di sapere già. Senza modellarci ancora tra le parole, paghiamo il prezzo di un biglietto, siamo clochard con mani larghe per i palazzi, serviamo e siamo servi della povertà svendendola amandoci anche scalzi, amiamo acquistare libri e autori: un’apertura di mente che si riempie, una testa che poi sarà analitica e promuoverà una tesi intellettuale, il cuore avrà scampo dal dolore delle pagine suggestive?

Ma soprattutto, noi finalmente, dopo la lettura, ci mettiamo in posa come qualcuno, siamo davvero qualcuno, ci confidiamo, forse, sempre di più, di essere professionisti del settore, sempre di più artefici di una carriera segnata da tante vendite. Grittani siamo noi, Grittani è diventato “Davide Grittani” anche grazie a noi.

Ma rispondendomi, rispondendoci, il cuore avrà scampo dal dolore che si inietta come veleno, grasso da metabolizzare, come dice Grittani nella sua ultima opera, steatosi epatica a parte, parla di cirrosi e fegato. Come si può essere sicuri esperti, gente di mondo di pagine e da “ripresa facile”, dopo aver letto “La bambina dagli occhi verdi”?, verdi come olio, verdi come l’olio profondo, come l’olio giusto, senza conservanti e pesticidi, natura e principio di produzione immediato, olio di natura: vero, sporco perché pulito: grande pozzo dove annegare imbottiti nei polmoni.

Leggendo l’ultima opera di Grittani, La Bambina dagli occhi di oliva (Arkadia Editore) non posso biasimarlo, voglio graffiare la carta da parati della mia casa, vorrei andarci oltre, graffiare i muri che racchiudono il nostro mondo fatto di meritata o meno quotidianità: quanto si può conoscere un luogo senza disossarlo?

Ma qui più che di quotidianità si parla di agio. Grittani è uno scrittore che agisce sull’agio, lo agita, lo disorganizza. Le coscienze non si muovono solo, vengono beccate da corvi in passione.

Quanto conosciamo l’agio soprattutto, di un luogo? E se sotto l’agio ci fosse un covo di vipere, una radice velenosa esposta che la tocchi e l’orticaria è alle porte?

L’agio come lo riconquistiamo dopo tutto questo dolore nelle pagine?

Leggi Grittani fin da “La rampicante”, finalista allo Strega 2019 (Liberaria Edizioni), vuoi anche parlarci in questo articolo, ma poi capita che La bambina dagli occhi verdi si prende le tue parole, scriveresti non sono un articolo, un saggio, ci rifaresti un libro di critica, un’onomastica, una toponomastica di dolore. Onomastica: chiami Angelica, chiami Ada, donne che ricordi in un vocabolario di dolore per forza, tuo, chiuso nella retina, pungente, diventi cieco quando leggi: c’è uno stupro che è protagonista di questo libro. Un incanto che finisce subito, inizia da una scoperta di un disegno, una favola, una novella Kafkiana, i disegni sono all’inizio scarafaggi nel letto che non comprendono disegno, non reggono l’osmosi animale, ossigenano male, non riconosci braccia gambe perché sei un insetto, sbatti la porta, vuoi uscire? Il disegno non è più una favola, capisci che sei un insetto in una letteratura praghese della tragedia, sei in un campo di competenza sofoclea, un insetto in tragedia: lo stupro è un insetto che passa per tutte le letterature, narrative, mitologie del mondo, le letterature oscene del mondo che viola, in Grittani c’è un mostro, un padre. Come tutti i padri mostri, che lo sono sempre e comunque, per noi fertili e sproporzionati figli, fragili, incontentabili: ma questo è un padre peggiore pedofilo, pederasta senza poesia: Non è la bellezza di Mann e di Morte a Venezia, pederastia chiamata per tanto tempo in maniera malata, erronea. Lì uomo che ama un bambino nella sua estetica letale vitale e squisita, nel mare, dove tutto è poesia, nell’umido erotismo, una caduta in nome di Stendhal e della perfetta opera d’arte a perdita di fiato. Si muore per un battito innocente come gli stessi bambini che si amano da vecchi, senza tremore e con un coito carezza di dolcezza: il protagonista vuole creare bellezza dopo averla ricevuta senza toccarla in maniera gravida. Il sensazionalismo, l’affascinarsi, tutto come Agonia e Apologia della bellezza.

Qui c’è un padre stupratore, dopo aver grattato un muro “signora maestra”, scala disegnata poco dritta, bambina con il sesso di spalle incompetente e nudo, stuprato: nel disegno accanto un uomo che è un grande ingegnere stimato. Si ferma fuori le scuole del raccordo, nella periferia non incespica mai sul pentimento, ci cade nell’olio, sprezza peccato, sprezza orripilante, è uno zingaro che ha fame nei posti più poveri e compromessi del mondo: si nutre di cuore e di infanzia. Si nutre in paludi di malaria.

Grittani scrive sempre come se la sua frase, l’ultima, fosse una chiusura, come se non sapesse mai quanto possa durare il suo cuore. E’ un lungo innescare, disinnescare. E’ una scrittura di stomaco, pancia, sporca, mi viene da pensare al regista Costabile, il suo “Una femmina” alla Berlinale, a “Galantuomini”di Edoardo Winspeare, ad Ozpetek (avevi ragione tu!). Mi viene da pensare alla casualità della vita, al fato compromesso, questo atterraggio radicale, una collocazione del tutto per tutto, torna TUTTO al suo posto, si vive di tutte le risposte giuste: orrende, ma eterne come le radici.

Ogni cosa è una stanza, un santuario privato di specie religiosa, in Davide Grittani c’è una progettualità intellettuale malata, tutto è conseguenza di un brivido, mai in dissesto, tutto confermato dall’inizio. Ritorna nella lettura il pensiero che ti eri fatto in testa più macabro, che avevi scansato (Grittani ti prego no! Non questo, non farmi questo!) E invece la banalità violenta delle previsioni accolte. Il dolore, la bestia, sono disoccupati, entrano in scena mai quando meno te lo aspetti, ma proprio quando te lo aspetti.

Grittani, l’ho conosciuto, ci rivedremo, è professionale a più facce, le mani in pasta a tutto, vivo di questa terra, ha più partiti emotivi, ha un testamento grande di scrittore, se per partiti emotivi si divide (non capisci mai dove vuole raggiungere la profondità, si fa male davvero, si autodistrugge come una bomba di uno jihadista nelle sue stesse mani. Ha credenze, le qualifica, ma poi è un miscredente delle sue paure, le cura, ma poi le violenta, le fa evadere, le rivide per ritrovare di nuovo paura: pompa della sua narrativa che è un pugno nello stomaco.

Davide Grittani, è un umano che scrive di personaggi incredibili, si mette sempre alla prova, modera poi scuote la parola, le da’ un taglio formale mai ampolloso, è la parola della terra e dei sentimenti, un grande narratore di personaggi.

Penso a lui e penso a Deleuze, forse uno degli ultimi più grandi filosofi francesi, ad uno dei pittori più sottovalutati (ma forse il più grande) come Bacon, ad Antonie D’Agata, il più grande fotografo e regista della Magnum. Tutti grandi, uomini coraggiosi che si sono imposti come grande è Grittani, in cui la parola è compimento studiato, con dovizia mai disattesa, come gli altri si impone agli occhi, occhi adesso indifesi che annullano forza e chiedono a mani giunte, ti prego!, protezione.

In quei muri che taglia, c’è sigillato qualcosa che non è metafisica, come ha raccontato l’arte di questi grandi artisti. Ci sono escrescenze (e non anime): c’è la vertigine dei corpi, il loro candore deturpato.

Resta nelle cose, come nel mondo, come per le strade, come in una palazzina vista dal basso già come fossimo tutti protagonisti di uno schianto, c’è lo schianto del seme, la sua esuberanza, la folta impotenza lunga dei malati, c’è l’ibrido importante di ciò che resta, umori, sensazioni, cuori e crocifissioni, c’è l’annegamento dei colli: qualcosa che si muove nella brillantina gelatinosa di aria anidrite e cosmo, qualcosa che muove proprio quando noi non restiamo più e ce ne andiamo, per sempre.

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