“La luce dentro”: in un documentario di Luciano Toriello il carcere e i bambini che vivono all’esterno colpe non proprie

by Antonella Soccio

“Non è facile vedere il padre uscire con le manette ai polsi e il sorriso spento”

Nel carcere, “un mondo deprivato della parola”, è arrivata la telecamera discreta e rispettosa di Luciano Toriello con “La luce dentro”, il documentario, diretto e prodotto dal regista lucerino e realizzato in partnership con l’Associazione Lavori in Corso e la Cooperativa Paidos di Lucera in collaborazione con il Garante regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà.

Il docufilm risponde all’obiettivo del bando Social film Fund CON IL SUD, ossia raccontare per immagini il Sud attraverso i fenomeni sociali che lo caratterizzano. Si tratta di una iniziativa nata dal comune interesse della Fondazione Apulia Film Commission e della Fondazione CON IL SUD, che insieme hanno messo a disposizione complessivamente 400 mila euro per la produzione e la diffusione di 4 cortometraggi e 6 documentari.

Con una peculiarità: promuovere l’incontro tra imprese cinematografiche con enti del Terzo Settore meridionale, per favorire percorsi di coesione sociale e contribuire alla diffusione di temi sociali di rilievo nel Sud Italia.

L’idea de La luce dentro è quella di focalizzare l’attenzione su argomenti diversi rispetto a quelli della quotidianità del carcere.

“Non possiamo indossare maschere, si rischia così tanto di recitare un ruolo da non sapere più chi siamo. Liberiamoci, buttiamo via le maschere per avere solo il nostro vero essere”, dice un detenuto nel documentario.

Le storie gravitano intorno alla Casa Circondariale di Lucera, dove al fianco delle famiglie e dei detenuti operano quotidianamente due associazioni di volontariato: ogni giorno al lavoro fuori e dentro le mura del carcere, sempre dalla parte dei bambini e dei loro genitori. Mario e Christian, come tanti altri uomini che stanno scontando la loro pena in carcere, si impegnano ogni giorno per far valere il loro diritto alla genitorialità. Da una parte i reati, dall’altra le pene. In mezzo i figli, condannati a pagare per colpe che non hanno.

La luce dentro ha la rara capacità di raccontare le storie dei protagonisti senza alcun cliché. Chi sta fuori- compresi i figli dei detenuti, arrabbiati, delusi, sconfitti o desiderosi di veder ricostruita la propria famiglia e la propria identità- non capirà mai le emozioni di chi è dentro ed è come se la telecamera di Toriello lo evidenziasse con grandissimo pudore.

Noi di bonculture abbiamo potuto vedere in anteprima il documentario e abbiamo rivolto qualche domanda a Luciano Toriello.

Luciano, hai ridotto all’osso l’uso della musica e di altri effetti emotivi. Non temevi che così facendo il documentario potesse essere poi troppo specifico e legato ad un dato momento storico? Che fosse quindi poco “universale”? 

La scelta registica di cui parli è una scelta che mi porto dietro in molti dei miei lavori e, nello specifico, questa volta l’idea di trattare in questo modo la colonna sonora è stata condivisa assieme all’autore delle musiche originali Riccardo Giagni, già autore di numerosi film di Bellocchio. Con lui sentivamo che l’eco del carcere o il silenzio assordante che accompagnava le parole dure di Priscilla rappresentassero già un suono di per sé, e a quella verità non abbiamo sentito l’esigenza di aggiungere nient’altro. Di qui, tra le righe, viene fuori il lavoro delle associazioni, nel creare modelli di vita non stereotipati. Ed è proprio dalla volontà di raccontarmi una storia fortemente personale da parte di Priscilla, ragazza cresciuta nell’associazione Paidòs, che vengono fuori tra le lacrime le parole più dure e nette, probabilmente per liberarsene definitivamente nel tentativo di essere d’aiuto ad altre donne che hanno bisogno di non sentirsi sole per poter denunciare.

Perché hai scelto un linguaggio filmico così poco “edificante”? Colpisce molto la tua scelta nettamente diversa da molti prodotti che si leggono o vedono in giro sulla detenzione. Esistono “prodotti carcerari” edulcorati o altri che danno troppo valore enfatico alle attività delle associazioni che entrano all’interno, con una narrazione esasperata e psicologistica, spesso anche banalizzante. In La luce dentro è quasi il contrario: è come se le attività fossero “normalizzate”, non sono viste come l’eccezionale mondo di fuori che arriva in cella, dentro. Era questo il senso che volevi dare? La chiusura del cancello alla fine è questa cesura tra il dentro e il fuori? 

In effetti il mio tentativo non è mai stato quello di santificare il carcerato – d’altronde se si è ristretti un motivo di fondo esiste – né tantomeno di edulcorare il seppur nobile lavoro delle associazioni che operano in carcere. Del resto le due associazioni che hanno lavorato con me, Lavori in Corso per la parte della Casa Circondariale di Lucera e per tutte le riprese a casa dei bambini e Paidòs per la parte delle riprese all’Opera San Giuseppe di Lucera dove c’è la Casa famiglia e il Centro Diurno, lavorano da sempre a riflettori spenti e sin da subito si è manifestato da parte loro il desiderio di non raccontare se stessi se non in funzione del racconto degli altri.

Il mio focus è sulle pene che i bambini vivono esternamente, le colpe non proprie che pagano e l’esempio più lampante di questo concetto viene da Christian che da dietro le sbarre si rivede bambino e, attraverso la narrazione delle proprie pene, riesce, in un momento di altissima lucidità, a trovare la forza di osservarsi dall’alto e a vedere il parallelismo tra la sua storia di bambino e quella di sua figlia. Ho filmato personalmente tutte queste storie e in ognuna ho provato delle emozioni fortissime.

Il documentario è girato con uno sguardo dalla parte dei bambini e dei ragazzi, che non le mandano a dire, come Priscilla. Cosa hai provato filmandoli?  

Mentre giravo la scena della bambina, assolutamente improvvisata come del resto quasi tutte le scene del documentario, che urla da fuori al carcere nel disperato tentativo di far sentire la propria voce al padre detenuto avevo il viso pieno di lacrime, ma le lacrime e il nodo alla gola mi sono venute soprattutto con Christian dal quale la mia telecamera non si staccava mai, perché le sue micro espressioni narrano ancora di più delle sue seppur forti parole.

Io sono nato e cresciuto in un quartiere della periferia di Lucera e per me il linguaggio di questi luoghi e i suoi problemi non sono certo estranei, la famiglia Battista è praticamente mia vicina di casa e con loro ho passato più tempo che con gli altri.

Nel documentario ad un certo punto si dice che una delle molle che può far scattare la volontà di cambiamento sono i figli e infatti questo è proprio l’esempio di Loredana e Mario che hanno mostrato, anche mentre li osservavo da lontano, un forte pentimento nei confronti delle loro azioni passate motivato proprio dal desiderio di poter rimediare per poter dare una prova, un segno tangibile ai loro figli che insieme si può andare avanti. Questa redenzione che passa attraverso l’attaccamento alla famiglia mi è sembrata di per sé una cosa rispettabilissima.

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