PrimaVera al Garibaldi, Gifuni: “Sentivo di dover restituire al Teatro di Lucera la sua identità”

by Antonella Soccio
fabrizio gifuni

Restano tre spettacoli alla stagione PrimaVera del Teatro Garibaldi di Lucera a cura di Fabrizio Gifuni e Natalia Di Iorio, “Ogni male fore” delle Faraualla, L’Abisso di e con Davide Enia e La Ballata del Carcere di Reading da Oscar Wilde con Umberto Orsini e Giovanna Marini per la regia di Elio De Capitani. Una stagione inedita ed autonoma che ha recuperato l’identità del contenitore storico svevo, restituendo dignità e autorevolezza ad uno spazio, che era stato chiuso per tanti anni e che non vedeva più cultura alta e grossi nomi del teatro italiano.

A metà stagione l’attore e regista Fabrizio Gifuni, che vede dalla platea tutti gli spettacoli, ha regalato a noi di BonCulture un suo primo bilancio sul pubblico della sua città e sul senso di un’operazione non scontata, ma fortemente voluta dal Comune di Lucera, in un tempo in cui raramente gli Enti locali investono sul teatro e sulla cultura.

Fabrizio Gifuni, con Il Codice del Volo di Flavio Albanese c’è stata una prima sperimentazione di teatro per le scuole, proseguirete su questa strada?  

Assolutamente sì, era un’idea, avevamo molto chiaro che questo progetto bellissimo per la città, PrimaVera al Garibaldi, se la cosa fosse andata avanti, come fortunatamente sta andando avanti, avrebbe necessariamente comportato un coinvolgimento progressivo sempre più grande del sistema città, e uno dei piloni centrali del sistema città è la scuola. Dopo un primo esperimento, il numero zero, PrimaVera al Garibaldi di due anni fa, che era una piccola preziosa rassegna avvenuta tutta nei mesi di aprile e maggio, in cui vennero Maria Paiato, Gigi Lo Cascio, Alessio Boni e Marco Baliani, l’anno scorso abbiamo portato in scena la PrimaVera stagione, conservando il gioco di parole, che era un vero e proprio numero zero di una stagione che andava da dicembre a maggio e quest’anno abbiamo consolidato il rapporto con le scuole, che già c’era stato perché avevamo fatto una serie di presentazioni con degli spettacoli nei licei, molti studenti erano venuti, ma quest’anno abbiamo deciso di dedicare un intero spettacolo alle scuole.

Vogliamo continuare, con le scuole elementari e medie, sicuramente. Cerchiamo come con Il Codice del Volo degli spettacoli che non siano solamente dedicati e pensati per le scuole, ma che possano coprire un pubblico trasversale. Il Codice del Volo rispondeva a questa esigenza perché è uno spettacolo molto collaudato, è stato all’Eliseo a Roma, al Piccolo di Milano, nei teatri più grandi. Era lo spettacolo perfetto e ne cercheremo altri. L’Italia ha una grande tradizione di teatro ragazzi. Quando ho iniziato a produrre e a co-produrre i miei primi spettacoli l’ho fatto con un teatro di Parma, il Teatro delle Briciole, che poi è diventato Solares Fondazioni delle Arti, una delle realtà più affermate in Europa di teatro ragazzi, loro da tanti anni hanno una stagione interamente dedicata ai ragazzi dai primi anni di vita fino all’adolescenza inoltrata. Hanno prodotto “Na specie de cadavere lunghissimo” di Pasolini con la regia di Giuseppe Bertolucci. Per tornare a Lucera, senz’altro sì, è una esperienza che va fatta, perché le scuole in questo momento sono uno dei pochi presidi e vanno difesi con le unghie e con i denti e su cui investire per una crescita del Paese, non solo di Lucera.

Hai la sensazione che siano gli adolescenti ad andare in questo momento meno a teatro?

Non te lo so dire con esattezza, non ho un report. Dal momento che per me i teatri devono cercare di diventare sempre di più e devono essere piazze aperte sulla città, e non dei luoghi dove si va per passare la sera o qualche ora piacevole e in maniera sensata, ma devono essere dei luoghi che interagiscono con la comunità, perché credo che i teatri siano ancora uno dei pochi luoghi, dove è possibile condividere una esperienza di conoscenza che passa attraverso i corpi vivi delle persone quindi deve dialogare necessariamente con la scuola. La scuola si occupa in maniera più diretta di formazione, quello è il suo compito, il teatro, che poi spesso si fa nelle scuole-io ho iniziato a fare teatro nel liceo a Roma; molto spesso gli attori o quelli che diventeranno attori e registi incontrano per la prima volta il palcoscenico e l’amore per il teatro e per i testi negli anni della formazione scolastica, è un cortocircuito che si realizza in quei luoghi- deve sempre essere collegato alle scuole e alle Università. È questo il motivo per cui passo molto tempo nelle scuole e nelle Università.

Con Natalia Di Iorio hai scelto per questa stagione degli spettacoli essenziali, sono quasi tutti molto “nudi”, non vorrei dire da teatro civile, ma è quello lo stile. Come mai?

Sulla ideazione e realizzazione, non faccio nessuna differenza tra gli spettacoli più complessi dal punto di vista scenotecnico e gli spettacoli più nudi come li definisci tu, più essenziali. L’anno scorso abbiamo avuto Non ti pago con  l’ultima regia di Luca De Filippo, Qualcuno volò sul nido del cuculo e sono spettacoli che abbiamo fatto al Teatro dell’Opera, perché avevano una capacità dal punto di vista della platea e del palcoscenico. Quest’anno abbiamo deciso di concentrarci per una scelta sul Garibaldi, intanto perché è il teatro storico della città, il pubblico è molto affezionato al Garibaldi, lo sente giustamente come il teatro sulla città e stiamo cercando di concentrare tutto in un unico luogo e in un solo giorno della settimana dedicato, ad eccezione di uno spettacolo, il venerdì. È stato un modo per andare incontro al pubblico per creare un giorno di affezione, non sarà sempre possibile, perché non sempre le compagnie importanti sono disposte a venire un venerdì di quel mese, però quest’anno è andata bene: abbiamo avuto 6 spettacoli su 7 il venerdì. Non faccio distinzione tra spettacoli complessi e spettacoli essenziali, rispetto alla macchina scenica, perché per me quello che conta è quello che uno spettacolo riesce a trasmettere. Ci può essere un attore solo in scena immobile o uno spettacolo complessissimo con una compagnia numerosa, ma quello che conta è quello che succede in scena, quello che conta è il campo magnetico che si crea tra corpi in scena e i corpi dei cosiddetti spettatori, che come ho detto tante volte, chiamo cosiddetti spettatori, perché in realtà fanno lo spettacolo,  partecipano allo spettacolo e possono determinare sera per sera un cambiamento della temperatura e del ritmo.

Non sono presenze passive, che semplicemente guardano o assistono ad un gesto artistico performativo, ma interagiscono fisicamente: in alcuni spettacoli la cosa è più dichiarata, in altri anche quando si mantiene la frontalità della scena e non si rompe la quarta parete, il campo magnetico è invisibile, ma è sempre in azione. O succede qualcosa, o si crea qualcosa o non si crea. Puoi avere un attore o 15 attori, una scena magnifica e straordinariamente complessa o una scena completamente nuda, alla fine quello che conta è quello che succede in quel tempo sospeso, che è il tempo del sogno, dello spettacolo e soprattutto quello che succede dopo. Una volta usciti da quel teatro, la domanda è: siamo usciti sia pure in minima parte modificati rispetto a quando siamo entrati in teatro o non è successo niente? Questa è la grande scommessa.

L’abisso di Davide Enia è uno spettacolo in cui succederà molto, un tema attualissimo, che reazione avrà il pubblico?

L’abisso è uno degli più spettacoli più importanti e belli che io abbia visto negli ultimi tempi, Davide Enia ha fatto una splendida ricerca a Lampedusa da cui è nato un magnifico libro, di Sellerio, da questo libro Davide ha tratto uno spettacolo, che colpisce dritto al cuore. Davide ha una straordinaria capacità di elaborazione drammaturgica, ha una energia in scena, una semplicità, ha qualcosa di antico e arcaico, che ci riporta ai grandi aedi, l’arte del racconto dell’Antica Grecia, che si intreccia al Cunto siciliano di Mimmo Cuticchio e dei grandi raccontatori. E però ha una grande modernità allo stesso tempo. È uno spettacolo che mi ha emozionato molto, questo è il motivo per cui l’ho portato a Lucera, e sono sicuro che il pubblico lo amerà, ne sono certo. Da questo punto di vista io credo che non dobbiamo mai avere paura dei contenuti, così non dobbiamo mai avere paura della lingua, e lo dico per esperienza personale, avendo maneggiato per tanti anni un autore come Gadda considerato complessissimo e difficilissimo. Quando io portai nel 2010 per la prima volta l’Ingegner Gadda va alla guerra in scena al franco Parenti, molti mi dicevano: ah che bella idea, è un bellissimo progetto, sarà uno spettacolo di nicchia per persone molto preparate, che amano Gadda. È diventato uno degli spettacoli più popolari delle stagioni successive, non soltanto è stato uno spettacolo che ha vinto tutti i premi possibili e immaginabili, ma soprattutto ha incontrato il pubblico. Il pubblico usciva dalla spettacolo dicendo: ho sempre pensato che Gadda fosse un autore complicatissimo, ho spesso trovato delle difficoltà nella lettura silenziosa, vedendolo e ascoltandolo a teatro mi sembra tutto enormemente più semplice. A questo serve anche il teatro.

La parola detta arriva prima?

Sì la parola detta, la parola incarnata, è il corpo che si offre allo spettatore insieme al testo, che è una grande chiave di accesso anche a testi, giustamente considerati più complessi. Non bisogna temere la lingua, non bisogna spaventarsi della complessità, dei contenuti, purché tutto questo ovviamente non diventi punitivo. Le tre stagioni che sono andate in scena sono state molto godibili. È una grande scommessa, so perfettamente che ci sono degli spettacoli molto belli e interessanti, a cui probabilmente il pubblico potrebbe non essere pronto. È anche un percorso che si sta facendo insieme, graduale. La scelta di questi spettacoli tiene conto del contesto. Mi sembra di aver considerato insieme a Natalia Di Iorio fino a che punto ci potevamo spingere e soprattutto come si poteva fare un percorso di crescita insieme al pubblico. Il Teatro Garibaldi è stato chiuso per tantissimi decenni, è stato ristrutturato, a fine anni 2000 questo gioiello architettonico è stato restituito alla città, ma per tanti anni ha ospitato spettacoli con una certa discontinuità.

Ha ospitato per lo più compagnie locali.

Un grandissimo rispetto per il teatro amatoriale, per le compagnie locali e per quelle dialettali, perché svolgono una funzione molto importante sul territorio, ma questa stagione aveva l’ambizione di alzare l’asticella e di restituire ad una città importante come Lucera, che ha una tradizione storica e culturale di primissimo livello- questa è una città che in tutto il Novecento, prima e dopo la guerra, è stata frequentata da grandissimi scrittori, da filosofi, lo so per esperienza perché mio nonno era uno dei numi tutelari della città e passavano Benedetto Croce, Salvemini, Bacchelli, Ungaretti, era una città molto vivace dal punto di vista intellettuale- il livello che merita. Quando ormai tanti anni fa molto spesso ospitavo amici che passavano per la Puglia o che venivano a trovarmi a Lucera, come Giuseppe Bertolucci, Marco Tullio Giordana, tantissimi registi e attori sono venuti a trovarmi: tutti quanti si innamoravano di Lucera, avevo un riscontro molto forte da chi veniva da fuori. Venivano a vedere lo spazio incantato e unico del castello, l’anfiteatro, che è uno dei più belli di tutto il Sud Italia. Un nostro amico, il grande critico Emanuele Trevi, una delle intelligenze più vivaci che ci siano in questo momento in Italia, è venuto a Lucera, è rimasto a bocca aperta davanti all’anfiteatro. Tutto questo mi ha incoraggiato. MI sono chiesto: ma perché non provare a rinnovare e a rinverdire allo stesso tempo una tradizione così bella e così forte? Tutto questo per dire che questo lavoro che sto facendo insieme Natalia Di Iorio, con il Comune, che ha scommesso, e non è una cosa da poco, perché di questi tempi per le ristrettezze economiche a cui vanno incontro è molto difficile che i Comuni decidano di investire sulla cultura, quando abbiamo deciso di iniziare il percorso, lo abbiamo fatto unicamente come atto d’amore per la città, anche perché tra parentesi è una cosa che faccio gratuitamente in mezzo a una serie di impegni non da poco. È un gioco di equilibrismi, cerco di essere presente sempre a Lucera, sono presente quest’anno a 6 spettacoli su 7, ci sono per accogliere la compagnia.

Insieme a questo c’è un’altra cosa a cui tenevamo molto: il Teatro Garibaldi, restituire a quel luogo una identità. I teatri comunali spesso, anche perché bisogna pur campare, ospitano di tutto.

Dal convegno al saggio di danza

Certo, c’è il convegno, il matrimonio, il consiglio comunale. Lo capisco. Tutto questo lo puoi fare se il teatro ha una identità forte altrimenti c’è il rischio che il teatro venga percepito dalla cittadinanza come un porto di mare, in cui si fa un po’ di tutto. Mantenere per tutta la stagione la mostra di Ester Favilla, che ha fatto questi scatti bellissimi e sta continuando a farli, aver ripulito e rinnovato l’androne, aver messo a posto le dotazioni del teatro, aver risistemato i camerini significa ridare una identità a quel luogo. Uno entra e sa che da quel teatro sono passati Maria Paiato, Marco Baliani e gli altri, hanno lasciato una memoria. Questo è molto importante perché i luoghi hanno una anima, si trattava di ritrovare l’anima di questo teatro. Questo teatro ha un’anima molto forte, tutti gli artisti che hanno recitato al Garibaldi, tutti nessuno escluso, appena hanno messo piede sul palcoscenico hanno sentito che quel palcoscenico ha delle vibrazioni molto forti. Sono cose che difficilmente si riescono a comunicare a chi non fa teatro.

Il Garibaldi ha recuperato la sua identità?

L’anima del teatro è il risultato di un processo complesso e stratificato: è la memoria, quello che c’è stato in quel teatro, le persone che sono entrate,  come quel teatro è stato trattato, chi ne ha avuto cura, chi non ha avuto cura, e anche quali spettacoli sono passati per quel palcoscenico, perché lasciano una traccia e una scia, per un artista sapere che viene al Teatro Garibaldi e prima di lui sono venuti tutta una serie di compagnie, che in qualche modo riconosce come portatrici di un percorso è importante. Se vai invece in un teatro in cui il giorno prima c’è stato il comico televisivo, l’altro giorno il cabaret, non senti il palco. Tutto questo significa riacquisire una identità senza essere seriosi o pesanti, perché poi lo spettacolo deve essere un piacere. Sono certo che si possa ricavare quella sensazione di apertura del cuore, che ti fa dire quando esci dal teatro “oh questo spettacolo mi ha fatto stare meglio, mi ha fatto sorridere e pensare,” anche con contenuti più robusti.

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