Da Shelley ad Artaud: la sanguinosa storia di Beatrice Cenci, parricida ed eroina del popolo

by Gabriella Longo

Era l’11 settembre (che fra corsi e ricorsi storici sembra confermarsi sempre come giorno funesto) del 1599, quando tutta Roma assistette, nella piazza di Castel Sant’Angelo, al processo e all’esecuzione di Beatrice Cenci, accusata di aver assassinato il padre Francesco.

Le cronache di quel giorno, narrano di un caldo torrido tipico romano che pure non riuscì a contenere l’orda di avventori morbosamente suggestionati da uno dei casi giudiziari più famosi e dibattuti a tal punto da trasformarsi in una vera e propria leggenda.

Fra la folla, nella quale alcuni svennero per la calca mentre altri perirono precipitando rovinosamente nel fiume, c’erano persino Michelangelo Merisi (Caravaggio) e Artemisia Gentileschi. Da allora, per quattro secoli, si è tramandata la storia funesta di Beatrice e della sua famiglia, i cui membri, coinvolti nell’omicidio, trovarono tutti una morte terribile a seguito del processo che li vide protagonisti per più di un anno.

La storia dei Cenci è, invero, una storia nata nel sangue, laddove la ribellione familiare, fu l’estrema e fatale risposta alle vessazioni che il conte Cenci, tormentato da crisi colleriche e manie di persecuzione, infliggeva ai suoi figli e alla seconda moglie Lucrezia. Inclusa è l’ipotesi che la stessa Beatrice fosse stata vittima di violenze carnali da parte del genitore, il quale era sempre più spesso coinvolto in risse da strada (sulla sua testa gravava persino un’accusa di sodomia) e per questo chiuso nel pugno di una schiera di avvocati approfittatori, mentre è certa la pressoché totale clausura alla quale il conte costrinse la giovane figlia, rinchiudendola prima in convento all’età di soli sette anni (all’interno del quale ne passò ben otto) per poi consegnarla alla prigione di La Rocca, un castello sito nell’odierno Reatino.

Fu qui che i figli di Francesco Cenci e i loro complici, uccisero il patriarca, assicurandosi che la sua morte fosse degna delle atrocità di cui egli stesso s’era macchiato in vita. Beatrice, della cui diretta responsabilità nell’uccisione di Francesco Cenci non si ha certezza, rifiutò di denunciare il padre, atto che l’avrebbe scagionata dall’accusa, e andò in contro al boia con fierezza fra i cori di supplica del pubblico sgomento e invano implorante la grazia papale.

La vicenda, da leggenda del vivace folklore italiano, divenne, soprattutto nell’Ottocento, oggetto d’interesse per storici e letterati, particolarmente affascinati dalla figura di Beatrice, assurta in seguito a simbolo di libertà femminile. Il primo ad andare in questo senso, fu il poeta inglese Percy Shelley, che la identificò con un quadro del bolognese Guido Reni (dipinto probabilmente agli inizi del XVII secolo) nel quale l’eterea figura protagonista, ha uno sguardo malinconico, ma non rassegnato, anzi, colmo di fierezza nella difesa della sua dignità. Shelley compose il primo dramma teatrale ispirato alla storia dei Cenci nel 1819, mentre Stendhal dedicherà ad essi un racconto del 1837 all’interno delle sue Cronache italiane.

In entrambe le operazioni di riscrittura, la cronaca cinquecentesca viene “depurata” dalla crudeltà di cui è intrisa e digerita per un pubblico borghese: così, per Shelley, Francesco Cenci non muore ucciso da un chiodo nel cranio, ma per strangolamento, mentre Stendhal ravvisa nella follia del conte, persino qualcosa di affascinante, non di terribile, azzardando un parallelismo con la figura del Don Giovanni. Ogni elemento che accenni alla crudeltà storica della cronaca, viene smussato in virtù del non detto o del detto senza che sia traumatico come nella realtà, come il tema dell’incesto di cui è vittima Beatrice.

Beatrice Cenci nel ritratto di Guido Reni

Sia Shelley che Stendhal, saranno le fonti per il lavoro tormentato di Antonin Artaud, che riscrisse i Cenci un secolo dopo i suoi maestri, nel tentativo di dare corpo a quel concetto teorico di Teatro della Crudeltà e nel quale confluirà inevitabilmente la personale accusa al teatro borghese occidentale. Paradossalmente Artaud, si trova a smontare quella società che Shelley e Stendhal stavano proteggendo, restituendo alla riscrittura dei Cenci, l’immaginario più verosimilmente legato al sangue, come nei drammi shakespeariani e ancor più alla maniera di Seneca. “(…) i personaggi né innocenti, né colpevoli, sono soggetti alla stessa amoralità essenziale di quegli dèi dei Misteri Antichi da cui è nata ogni tragedia”, spiega Artaud, riferendosi alla scelta di collocare la vicenda umana Beatrice in un mondo in cui non esiste possibilità di salvezza o redenzione, ripristinandone il legame con Antigone.

Il conte Cenci diventa forse ciò che non è mai stato, e cioè una specie di terrorista che si lancia a briglie sciolte sulla società per distruggerla, partendo dalle sue radici, ovvero dalla famiglia; di riflesso, l’incesto, che qui è nominato da Beatrice piuttosto direttamente, prende i connotati della profanazione (“Cenci, mio padre, mi ha profanata”). Lo sguardo nichilistico di Artaud, d’altro canto, non toglie alla giovane un briciolo di quella fierezza dinnanzi alla morte che la storia riporta: “Espiare che cosa? Accetto il delitto, ma nego la colpa”, le fa dire, rimarcandone una lucidità d’azione nata dall’esigenza di riscatto come donna e come figlia, per poi farle terminare la pièce con la rivelazione di un tremendo timore che nemmeno la morte è in grado di provocarle: “Chi mi potrà garantire che, laggiù, non ritroverò mio padre. Questo pensiero rende più amara la mia morte. perché ho paura che la morte mi riveli che ho finito per assomigliargli”.

Oggi di Beatrice Cenci non restano nemmeno le spoglie mortali, trafugate dai giacobini nello scempio di fine Settecento a cui furono sottoposte le chiese barocche. E forse è per questo che ancora oggi a Roma, si tramanda l’impalpabilità della sua figura, simbolicamente rappresentata da un candido fantasma che, ogni 11 settembre, riapparirebbe nella piazza di Castel Sant’Angelo.

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