Dino Campana e Sibilla Aleramo, quando un grande amore è passione e violenza

by Germana Zappatore

Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò… Sei tu che mi squassi cosi? Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce. Dove sei, che mi sento cosi strappata a me stessa? Mi chiami, o m’hai dimenticata? Oh ti voglio ti voglio, non ti lascerò ad altri, non sarò d’altri, per la mia vita ti voglio e per la mia morte, Dino, dopo questo non si può esser più nulla, oh, sapere che anche tu lo senti, che rantoli anche tu cosi… Mi aspetti, dimmi, mi aspetti, vero? Saremo soli sulla terra. Bruceremo. Hai visto che siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per noi. Più a fondo, più a fondo, ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tiemmi, io non ti lascio, bruceremo. Dimmi che mi manca cosi il respiro perché mi chiami, perché mi vuoi.
(Sibilla a Dino – Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo, 9 agosto 1916)

Era l’estate del 1916 e tutto in Italia parla di guerra. Tutto tranne loro: Sibilla Aleramo e Dino Campana. Mentre impazzava il primo conflitto mondiale, loro si amavano di un amore folle e violento, devastante. Si erano incontrati per la prima volta il 3 agosto del 1916, ma lei una decina di giorni prima gli aveva inviato una lettera dopo aver finito di leggere i suoi ‘Canti Orfici’. “Chiudo il tuo libro – scriveva la donna – snodo le mie treccie, o cuor selvaggio (…). Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo, liberi singhiozzando, senza mai vederci, né mai saperci, con notturni occhi (…)”. Era scoccata la scintilla.

Anche se Sibilla e Dino non potevano essere più diversi. Lei aveva quarant’anni, era una femme fatale che aveva collezionato una lunga serie di amanti e aveva pubblicato il romanzo autobiografico dai forti contenuti femministi ‘Una donna’. Lui di anni ne aveva 31, per sua stessa ammissione era “orso” e “strambo” e aveva avuto esperienze amorose per lo più con prostitute, dall’età di 15 anni soffriva di disturbi mentali e i suoi ‘Canti Orfici’ aveva ricevuto una tiepida accoglienza.

Tuttavia i due avevano una cosa in comune: l’animo tormentato. A Dino stavano strette la vita e la mentalità gretta di Marradi (il paese natio in provincia di Firenze) da dove spesso fuggiva per rifugiarsi in altri posti e addirittura in paesi stranieri. Fughe che puntualmente finivano con le autorità che lo ritrovavano e con il ricovero in manicomio. Inoltre non fu mai idilliaco il rapporto con la madre che non nascose mai di preferirgli il fratello minore.

Sibilla Aleramo e Dino Campana

Sibilla Aleramo (nata Marta Felicina ‘Rina’ Faccio), invece, da bambina dovette fare i conti con una madre internata in manicomio perché aveva mostrato tendenze suicide, mentre a quindici anni fu violentata da un collega della fabbrica dove lavorava come impiegata contabile: rimase incinta, ma perse il bambino e due anni dopo sposò il suo carnefice. Il matrimonio fu infelice, nonostante la nascita di un figlio e dopo alcuni anni e un tentativo di suicidio la scrittrice decise di lasciare consorte e prole per ‘rinascere’.

Sibilla Aleramo e Dino Campagna avevano in comune molto più di quanto pensassero. Era un filo sottile, invisibile, ma così forte da tenerli uniti anche se solo per circa un anno. Fra alti e bassi, fra botte e sesso, fra ripicche e passionali dichiarazioni d’amore i due amanti non potevano fare a meno l’uno dell’altro.

Dopo quel primo incontro al Barco sopra Scarperia presso le montagne del Mugello, scoppiò la passione di cui ci restano testimonianza dirette grazie al carteggio fra i due pubblicato nella raccolta ‘Un viaggio chiamato amore – Lettere 1916-1918’ (da cui fu tratto un film nel 2002 per la regia di Michele Placido con Laura Morante e Stefano Accorsi). “Sono tua, sono felice”, “Ti farò gridare di gioia quando ci riprenderemo” scriveva la Aleramo che nella lettera datata 7-8 agosto 1916 metteva nero su bianco queste ardenti parole:

“Notte – Possa tu riposare, mentre io ardo cosi nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice. M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda. Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa. Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue”.

Ma passato l’idillio iniziale, i fantasmi e i tormenti di entrambi ben presto fecero capolino nella loro storia. La Aleramo se ne accorse e cercò in qualche modo di mettere in guardia entrambi per preservare il loro amore. “Dobbiamo vincere. Un male di quindici anni, tu hai detto… Si, e anche per me. Sono quindici anni che son partita da mio figlio” scriveva nella missiva datata 29 ottobre 1916. Ma non fu sufficiente.

Iniziò la follia, da parte di entrambi: entrambi vittime e carnefici. “Tutta la notte si sono battuti e graffiati. Si ammazzano senz’altro, se qualcuno non interviene” scriveva nel dicembre di quello stesso anno la giornalista svedese Anstrid Anhfelt che li aveva ospitati nella sua villa a Settignano in una lettera alla pittrice e scrittrice Leonetta Cecchi Pieraccini. E la Aleramo componeva i seguenti versi: “Rose calpestava nel suo delirio e il corpo bianco che amava. Ad ogni lividura più mi prostravo, oh singhiozzo, invano, oh creatura! Rose calpestava, s’abbatteva il pugno, e folle lo sputo su la fronte che adorava. Feroce il suo male più di tutto il mio martirio. Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male!”. E Campana le rispondeva con queste poche righe: “Io non merito di essere amato da lei. Ci separiamo”.

Poco dopo, però, si scambiavano missive con queste parole: “Dicevi ch’eri tu che mi amavi, Dino? Sono io, sono io che amo te. Che dipendo dalla tua vita. Non chiedo altro. Ti adoro”. E così questo odi et amo durò fino al gennaio dell’anno successivo quando l’autrice di ‘Una donna’ fece visitare l’amato da uno psichiatra di grido, il Prof. Ernesto Tanzi. Cosa diagnosticò il luminare non è dato sapere, ma cosa certa è che dopo quella visita i due amanti si divisero per sempre. Lui fu rinchiuso in ospedale e fra i due iniziò una corrispondenza epistolare fatta di contraddizioni: si cercano poi fuggono, si insultano poi si dichiarano amore eterno.

Poi la Aleramo smise di cercarlo, ma l’autore dei ‘Canti Orfici’ non si arrese e si aggrappò alla speranza di rivedere l’amata: continuò a scriverle supplicandola di andarlo a trovare, ma inutilmente. La sua ultima lettera indirizzata all’unica donna della sua vita è datata 17 gennaio 1918 e fu inviata dal Manicomio di S. Salvi di Firenze. Ecco il brevissimo testo: “Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo Dino”. Non ricevette mai risposta. Questo amore struggente, passionale, devastante e violento era ormai finito. Dino Campana non uscì mai più dal manicomio.

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