Edith Piaf, la chanteuse réaliste consumata dalla vita e dall’amore

by Michela Conoscitore

Primi anni del Novecento, una bambina si sta esibendo in una rue, nei pressi del centro di Parigi. Canta la Marsigliese, altri in seguito avrebbero riportato una versione diversa, meno nazionalistica. Però, quel che è sicuro è che sta cantando, uno dei suoi primi spettacoli in pubblico. Accanto a lei, il padre che l’ha spinta ad esibirsi per arrotondare i guadagni e poter mangiare qualcosa per cena. La sua voce sorprende i passanti che si fermano ad ascoltare, per quanto possa avere soltanto dieci anni. La bambina si chiama Edith Giovanna Gassion, e quel momento, lì in quella strada anonima, segna l’inizio della sua leggenda.

Della sua infanzia, racconterà in seguito: “La mia vita da bambina può sembrare spaventosa, ma era bellissima. Ho avuto fame. Ho avuto freddo. Ma ero libera. Libera di non alzarmi. Di non sdraiarmi. Di ubriacarmi. Di sognare. Di sperare”. Tra aneddoti e dolori, quelli purtroppo reali, la vita di Edith Piaf è stata una girandola di emozioni forti, come abbandoni, perdite e rinascite. La sua voce, che ha cantato la Francia della prima metà del Novecento, le ha donato l’appellativo di Piaf, il suo nome d’arte, che nello slang parigino significa passerotto. La celebre cantante ha usato le sue corde vocali come mezzo principale d’espressione per comunicare al mondo i suoi stati d’animo, oliandole di sentimento e forza di volontà: “Il canto è un modo di fuggire. È un altro mondo. Quando canto non sono più sulla Terra”.

Edith è figlia d’arte, la madre di origini livornesi era cantante di strada, il padre contorsionista circense la portava con sé nelle sue esibizioni, in strada e nelle carovane dei circhi per cui ha lavorato. Anche la sua nascita è immersa nella leggenda, la versione principale, indicata da una targa in Rue Belleville 72, racconta che la madre la partorì su quel marciapiede, assistita da un poliziotto. Il padre, nel frattempo, era alla ricerca di un’ostetrica e pensò bene di cercarla in ogni locale del quartiere, tornando dalla compagna e dalla neonata Edith, in seguito, ubriaco.

I genitori non si occuparono di lei nei primi anni della sua vita, infatti trascorse la sua infanzia con le nonne. Il periodo che influenzò particolarmente la vita della cantante fu quello che visse a Barnay, con nonna Louise, tenutaria di un bordello. Dopo aver sofferto di cheratite, e aver assistito già da piccola alle brutture cui la vita poteva sottoporre le donne, senza mezzi e abbandonate a loro stesse, Edith ritorna a vivere col padre, con il quale inizia ad esibirsi a Parigi.

La vita di strada forgia ulteriormente il carattere di Edith, rendendola sanguigna, coriacea, e spesso anche aspra. In quegli anni ha imparato a difendersi, a piangere, e ha iniziato a perdere, persone care e sentimenti. Diciassettenne, partorisce una bambina, Marcelle, che morirà due anni più tardi di meningite fulminante. Questo sarà uno degli eventi che inizierà a frantumare l’anima della cantante, e allo stesso tempo a donare alla sua voce quella malinconica dolcezza, tipica delle sue canzoni.

Scoperta da Louis Leplées, direttore del cabaret Le Gerny’s, Edith inizia la sua scalata al successo. La vita sembra inizi a sorriderle: oltre che cantante, si scopre autrice riversando nei testi delle sue canzoni non soltanto le sue paure, e la sua tristezza, ma anche la sua fiducia nella vita. Infatti, La Mome, altro suo soprannome, non ha mai rinunciato alla speranza, e a vedere la vita in rosa:

Quand il me prend dans ses bras

Il me parle tout bas,

Je vois la vie en rose.

Il me dit des mots d’amour,

Des mots de tous les jours,

Et ca me fait quelque chose.

La vie en rose è la sua canzone più celebre, tutt’oggi, e oltre ad essere diventata un’espressione idiomatica mondiale, non soltanto ha raccontato la fioritura della cantante in quel periodo, ma anche la rinascita di un paese intero, la Francia, appena uscita dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Il repertorio di Edith è immenso, tra canzoni scritte da lei e quelle di altri autori come Marguerite Monnot: impossibile non citare Milord, Padam Padam, Mon manege a moi, La Foule e poi in ultimo quella che, forse, la rappresenta maggiormente, Non, je ne regrette de rien:

Non, rien de rien

Non, je ne regrette rien

Ni le bien qu’on m’a fait

Ni le mal

Tout ça m’est bien égal

Non, rien de rien

Non, je ne regrette rien

C’est payé, balayé, oublié

Je me fous du passé

Però, sarà con l’Hymne a l’amour che regalerà al pubblico la sua interpretazione più emozionante e sentita: Edith ha amato tanti uomini nella sua vita, ma nessuno ha mai potuto eguagliare quel che ha provato per il pugile Marcel Cerdan. Sposato e con figli, Cerdan conosce la Piaf a New York, dove si stava esibendo da mesi, ormai diventata una celebrità. Il loro amore durerà un anno, interrotto tragicamente dalla morte dello sportivo, avvenuta in un incidente aereo, nel 1949. La cantante si sentirà, in parte, responsabile di quell’avvenimento poiché aveva chiesto a Marcel di raggiungerla presto negli Stati Uniti, e di non prendere quindi la nave. La sera successiva alla morte di Cerdan, prima di iniziare il concerto, Edith disse che quella sera avrebbe cantato solo per Marcel. A metà esibizione, però, svenne sul palco per il dolore, non essendo più in grado di riprendere.

Da allora, si susseguirono altri amori, dolori anche fisici per l’avvento dell’artrite reumatoide e di incidenti che la costrinsero a fare un uso massiccio di morfina, rendendola dipendente. Precorse i tempi, anticipando il clima innovativo e controcorrente degli artisti della Rive Gauche: accolse, come mecenate e amica, tanti di loro come Jean Cocteau, Charles Aznavour e Yves Montand.

La chanteuse réaliste muore a soli quarantotto anni, consumata dalla vita. Lei non ha mai rinnegato nulla, perché: “Ho sempre voluto cantare, proprio come ho sempre saputo che un giorno avrei avuto la mia nicchia negli annali della canzone”. Una leggenda consapevole della sua grandezza, questa è stata la forza di Edith, piccola grande donna.

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