Hannah Arendt: la lezione della indicibile banalità del male

by Paola Manno

Mi sono spesso interrogata sulla natura di alcune opere letterarie, sulla forma e la funzione, e La banalità del male resta ancora oggi uno scritto che non riesco a classificare. È un saggio ma al contempo un diario, è un’opera storica, documentaristica, filosofica, politica, ma è anche un manifesto.

L’opera più famosa di Hannah Arendt è, tecnicamente, il resoconto del processo ad Adolf Eichmann, funzionario tedesco addetto all’organizzazione logistica della soluzione finale, nel dettaglio, del trasporto degli ebrei verso i campi di concentramento. Heichmann è ritenuto uno dei maggiori responsabili dello sterminio nazista. Sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina dove venne catturato per essere processato a Gerusalemme per genocidio e crimini contro l’umanità.

Nel 1961 Hannah Arendt, costretta a fuggire negli Stati Uniti dalla Germania prima della guerra per le sue origine ebraiche, seguì il processo come corrispondente del The New Yorker.

La pubblicazione di Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil scatenò da subito numerose polemiche, legate in particolar modo al racconto del ruolo degli ebrei nella soluzione finale, che mise in luce la responsabilità dei capi sionisti che collaborarono con i nazisti. Venne inoltre criticata la questione su un’eventuale possibilità di ribellione da parte delle vittime.  Eppure queste furono, si difese l’autrice, questioni goffe e crudeli, perché ciò che l’opera riporta è sostanzialmente il processo a un uomo, a un individuo in carne ed ossa.

Ci si può avvicinare ad un libro come questo per capire le ragioni storiche, il funzionamento di un sistema giuridico, per individuare le responsabilità, che naturalmente vengono fuori. Ciò che tuttavia emerge con più forza è che Eichmann non può né deve rappresentare il popolo tedesco né tantomeno diventarne il capro espiatorio. Quando la Arendt parla della banalità del male, lo fa su un piano quanto mai concreto, come scrisse nell’appendice dell’edizione del 1964.

Al centro dello scritto c’è dunque un uomo e tentare di capire l’uomo, per l’autrice, fu la cosa più importante. E lo è stato anche per me, lettrice, che sovente mi approccio ad un’opera in cerca di risposte precise. Vi cercavo soprattutto una riflessione su questioni morali che in tutta la loro complessità trovo abbiano un peso ancora oggi sulla coscienza dell’uomo del 2020. Credo infatti capiti a molti, a un certo punto della vita, di domandarsi cos’è il male. Se la letteratura può aiutarci in questo, allora La banalità del male è uno strumento potentissimo.

L’analisi parte dall’atteggiamento dei tedeschi che, all’epoca del processo, e dunque a 15 anni dalla fine della guerra, non avevano, secondo l’autrice, molto da ridire sulla presenza dei numerosi criminali nazisti sul loro territorio. Questi sapevano che probabilmente nessuno di essi avrebbe più commesso un delitto di propria spontanea volontà. La questione, infatti, ruotava intorno a un “dilemma insolubile, a cui tuttavia non ci si può sottrarre” e cioè al dover ammettere che una persona comune, normale, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. I giudici del processo partivano dal presupposto che l’imputato avesse agito sapendo di compiere dei crimini. Eppure, ricorda la Arendt, Eichmann era normale nel senso che non era un’eccezione tra i tedeschi della Germania nazista.

Quanto più lo si ascoltava –scrive– tanto più evidente era la sua incapacità di esprimersi, legata a un’incapacità di pensare. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché la presenza e le parole degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano”.

Queste parole sono pensieri che oggi trovano conferme, perché spesso la presenza dell’altro pare non toccarci. Riscopro questa verità quotidianamente: in molte scelte politiche, nell’indifferenza di chi delega, nei commenti sui social, nell’alzata di spalle di fronte a immagini che dovrebbero farci tremare, nell’azione dell’altro che non si chiama Eichmann, ma che ugualmente sostiene che l’unica cosa da fare è obbedire agli ordini.

Il processo, tra le altre cose, ruotò attorno a una domanda cruciale: Eichmann, ha una coscienza? La risposta che la Arendt si diede era affermativa, e dunque sì, il funzionario aveva una coscienza, che però a suo avviso iniziò fin subito a funzionare nel senso inverso.

Eichmann non era uno che voleva “fare il cattivo”, non era neanche uno stupido, era semplicemente senza idee (cosa molto diversa dalla stupidità- sottolinea l’autrice) e fu proprio tale mancanza di idee a farne uno dei peggiori criminali di quel periodo. “Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”. La normalità di cui si parla è addirittura più spaventosa del resto delle atrocità commesse perché chi commette il crimine non ha neanche la percezione della gravità delle sue azioni: è, questa, la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.

La riflessione si estende poi alla coscienza di tutto il popolo tedesco. Continua: “E come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti -Non ammazzare! , anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenze omicide, cosí la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: -Ammazza! , anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai piú di riconoscerlo per quello che è — la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (che naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi particolari, sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”

Il problema principale delle SS divenne infatti quello di soffocare non tanto la coscienza, ma la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova davanti alla sofferenza fisica degli altri.

Naturalmente questo non valeva per tutti i tedeschi, perché furono diversi coloro che si opposero alla politica di Hitler. Le loro erano voci fragili, ma c’erano, e la Arendt ne riporta alcune testimonianze, preziose luci nelle pagine della Storia: voci di chi aveva conservato intatta la capacità di distinguere il bene dal male.  Pochi, brevi fogli che descrivono la ribellione di uomini di cui pochi ricorderanno il nome, che però messi di fronte alla mediocrità del male raccontano il potere di una lucciola che, come scrisse un decennio più tardi un grande intellettuale italiano, vale più di un colosso del potere.

E a queste voci mi aggrappo, voglio aggrapparmi dopo aver letto la lucida analisi di una donna che ha guardato negli occhi il male e lo ha raccontato. Queste voci che arrivano qui, oggi, mentre ricordiamo il naufragio morale che ha investito una nazione, mentre celebriamo dopo 75 anni i morti ammazzati da un odio costruito e che ritorna subdolo con vesti nuove e nuovi mezzi. Capire il male nel profondo e aggrapparsi al bene con forza, studiare, darsi delle risposte, è questo che bisogna fare, per non smettere mai di credere all’empatia come sentimento essenziale per la costruzione della pace.

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