“Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose” la tragica storia di Eleonora Pimentel Fonseca

by Michela Conoscitore

Passeggiando a Napoli, tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli, si avverte prepotentemente che la storia non è stata diluita dal trascorrere del tempo, ma è rimasta attaccata a quelle strade, a quei muri perché appartiene a questo microcosmo fatto di storie ed eventi, e sarebbe impossibile staccare le vicende che hanno animato questa parte di centro storico e dimenticarle, perché si negherebbe l’anima stessa del capoluogo campano.

Eppure, in molti hanno cercato di mettere a tacere, nel corso dei secoli, memorie scomode e protagonisti che, con il loro esempio, avevano indicato una strada, anche per chi sarebbe succeduto a loro.

La storia di Eleonora Pimentel Fonseca rientra in questa damnatio memoriae, all’indomani della restaurazione borbonica, dopo la breve avventura della Repubblica Partenopea nel 1799. La sua vita è stata raccontata da Enzo Striano nel libro Il resto di niente, poiché di Eleonora, nel corso degli anni, si sono perse le tracce. Peggio ancora, la sua peculiarità, di donna illuminata, è stata travisata e infangata. Una femminista ante-litteram, intellettuale, poetessa, giornalista e attivista: a prescindere dalle barricate, dietro cui ancora oggi si assiepano sostenitori e reazionari, la vita della marchesa Pimentel Fonseca merita di essere raccontata, nella sua semplice essenzialità.

Eleonora nasce a Roma, da una famiglia aristocratica portoghese. Inizialmente, i Pimentel decisero di stabilirsi nell’Urbe, poiché al soglio pontificio era salito Benedetto XIV, pontefice favorevole al Portogallo, con cui intratteneva ottimi rapporti. La situazione cambiò quando venne nominato papa il filogesuita Clemente XIII. Il padre di Eleonora decise di trasferirsi a Napoli, e lei ancora piccola assorbì fin da subito l’energia della città, diventandone una figlia affezionata.

Educata dallo zio, l’abate Antonio Lopez, la marchesina dimostra un’intelligenza viva e vorace: a sedici anni si intende di tutto, dalle scienze alle lettere, parla greco, latino, italiano oltre che il suo portoghese. Una cultura tipica per gli anni dell’Illuminismo, e prevedibile per una nobile del suo livello. Soprattutto, Eleonora si diletta di poesia; nel corso della sua vita, scrisse innumerevoli opere, dedicando alcune anche ai sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina come Il Tempio della Gloria, composto in occasione del loro matrimonio. Ella, inoltre, scelse il componimento poetico come valvola di sfogo per qualsiasi evento vivesse o le pesasse sul cuore. In seguito, per questi suoi meriti poetici, entrò a far parte prima dell’Accademia dei Filateti, e poi in quella dell’Arcadia.

A 25 anni, nel 1778, sposò il tenente dell’esercito borbonico Pasquale Tria De Solis, vent’anni più anziano di lei, da cui ebbe l’unico figlio che morì a soli due anni, per vaiolo. L’unione col marito non fu felice, e la gettò nello sconforto più cupo: Eleonora dovette sopportare tradimenti, percosse e soprusi psicologici, poiché il De Solis avvertendo la superiorità della moglie, non trovò altro modo di imporsi se non quello di farle del male. Eleonora, a causa dei maltrattamenti subiti anche in gravidanza dal marito, non potette generare altri figli. Il padre della marchesa, esasperato dalla situazione a cui era costretta la figlia, avviò la causa di separazione, un’ignominia per l’epoca.

Quando Eleonora fu libera di poter perseguire i suoi interessi, letteralmente sbocciò: rispolverò le sue passioni, mise in bella vista i suoi preziosi libri (alcuni dei quali aveva perso per sempre, bruciati dal marito per dispetto) e si ricordò degli insegnamenti di Gaetano Filangieri e Antonio Genovesi. Ricevette, inoltre, dei sussidi dal re per vivere, e fu nominata bibliotecaria di corte. Eleonora, nel fermento di quegli anni, mentre in Francia era scoppiata la Rivoluzione Francese e i sovrani, tra cui la sorella della regina Maria Carolina, erano stati decapitati, divenne un punto di riferimento nelle dinamiche in atto a Napoli. Da monarchica convinta iniziò ad appoggiare le idee giacobine, quando comprese che i sovrani non erano affatto interessati al bene del popolo, ma esclusivamente al proprio. Il giacobinismo napoletano fu profondamente diverso da quello francese, che portò poi alla Rivoluzione e al Terrore.

Dopo un primo periodo di riforme, volute da Carlo di Borbone e proseguite dal figlio Ferdinando, i reali borbonici preoccupati dai venti insidiosi che spiravano dalla Francia, decisero di porre un freno alla loro politica liberale e adoperare la forza. Ciò incrinò i rapporti tra corona ed elitè intellettuale partenopea, che faceva capo al Filangieri e a cui Eleonora apparteneva.

I contatti che la marchesa intrattenne con i rivoluzionari napoletani non passarono inosservati e fu incarcerata, nel 1794. La situazione, però, continuò a degenerare fin quando i sovrani furono costretti a lasciare Napoli, per rifugiarsi in Sicilia. Così ebbe inizio la breve avventura della Repubblica Partenopea, che fu fondata sui versi de L’Inno alla Libertà, scritto da Eleonora.

La marchesa fu nominata direttrice del giornale della Repubblica, il Monitore Napoletano, dalle cui colonne non soltanto aggiornava i cittadini sui provvedimenti amministrativi e politici, ma denunciava anche le malefatte dell’esercito francese a Napoli, sfuggendo quindi all’accusa di connivenza, poiché lei sostenitrice della Repubblica, non difese coloro i quali quella Repubblica avevano contribuito ad instaurarla.

Nel giugno del 1799 le truppe del cardinale Ruffo giunsero a Napoli, per riportare la città partenopea sotto l’egida dei Borbone. Eleonora fu arrestata e imprigionata nelle carceri prima della Vicaria, e poi del Carmine. Accusata di tradimento, fu condannata all’impiccagione. Inutili furono le sue richieste di morire per decapitazione, la morte designata per i nobili. Il re le aveva revocato quel diritto, non riconoscendole la nobiltà precedentemente avvallata da un regio decreto. Vincenzo Cuoco così la descrisse, nei suoi ultimi momenti di vita:

Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore Napolitano, da cui spira il più puro ed il più ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo volle bevere il caffè, e le sue parole furono: forsan haec olim meminisse juvabit.

Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose: tali furono le ultime parole pronunciate da Eleonora Pimentel Fonseca, prima di essere impiccata in Piazza Mercato. Il suo corpo rimase, per giorni, esposto al pubblico ludibrio. Eleonora fu una ribelle, che affrontò le difficoltà dei suoi tempi con la forza della ragione, e con una passione impareggiabile per la giustizia e l’uguaglianza.

Alza gli occhi verso il mare, che s’è fatto celeste tenero. Come il cielo, come il Vesuvio grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però, ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio. Sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente, il resto di niente.
Enzo Striano, Il resto di niente

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