La versione di Orietta, tra bandiere rosse e acquasantiere

by Felice Sblendorio

Su di lei, l’usignolo di Cavriago, il geniale Tommaso Labranca ha scritto: «Orietta Berti è la cantante della medietà, nel senso che le sue canzoni sono comuni denominatori comprensibili a fasce diverse di pubblico. Questa è matematica non presunzione: si prendono tutti i membri del pubblico (quantità x), si sommano le quantificazioni delle loro esperienze singole e si divide il risultato per lo stesso numero x. Si otterrà ciò che in matematica si chiama media e che corrisponde al testo di Tu sei quello». Oggi, dopo cinquantacinque anni di carriera e 16.000.000 dischi venduti, 350 brani incisi e pubblicazioni in oltre 40 Paesi nel mondo, l’Orietta nazionale, troppo popolare per la critica ma non per il suo pubblico, si racconta in una nuova autobiografia: “Tra bandiere rosse e acquasantiere” (Rizzoli, 272 pagine, 18.00 euro).

Signora Berti, partiamo dalle bandiere rosse. Sua madre era comunista, e nel suo paesino c’era un busto di Lenin…

In casa, da piccola, c’erano un sacco di bandiere rosse perchè la mamma le realizzava per abbellire il paese. Dopo la guerra era proibito festeggiare il primo maggio, quindi venivano posizionate clandestinamente attorno alle abitazioni principali. Mia madre, da vera comunista, era molto impegnata in quei momenti, e io l’aiutavo.

Le acquasantiere, invece, come entrano in questa famiglia comunista?

Le acquasantiere arrivarono con mio padre, un democristiano molto cattolico che mi portava a tutte le messe e le processioni. C’erano le processioni religiose e i cortei dei partiti. Io mi divertivo molto perchè c’era tanta confusione. All’epoca c’erano poche distrazioni: le feste e un cinematografo che proiettava un film per quindici giorni. Con la nonna lo vedevo almeno sei volte.

In quel gran pezzo dell’Emilia la contrapposizione politica era viva.

L’Emilia era una terra bonaria, fertile e gentile in un mondo alla Don Camillo e Peppone. Quando passeggiavo con mia nonna diceva: “Quello è un demonio”, parlando di un democristiano. Invece, quando ero con mio padre e vedevamo un comunista esclamava: “È talmente rosso che brucia da solo”. Si litigava sempre per i colori politici, ma nel momento del bisogno tutti erano solidali. Oggi sono scomparsi i partiti e la nostra società è un po’ più fredda, più egoista.

Nel titolo anticipa una curiosità: le sue collezioni. Oltre alle acquasantiere, colleziona 90 bambole, 90 camicie da notte sexy, 365 puffi: una mania?

Sono sempre stata così. Forse perchè sono dei gemelli e mi piacciono le cose doppie. Colleziono di tutto perchè mi fa star bene: le vestaglie, i puffi e le bambole, che odiavo quando ero piccola perchè si vendevano soprattutto quelle economiche, con gli occhi brutti e spaventosi.

Ha cominciato a cantare da giovanissima, e se oggi siamo qui è grazie a suo padre. Quando è scomparso lei ha deciso di continuare per lui: è stato il primo a crederci?

Mio padre voleva che diventassi un soprano perchè lui, un tenore mancato, amava la musica lirica. Io ho studiato lirica, però ai concorsi di voci leggere era più facile farsi notare. Incontrai in un concorso Giorgio Calabrese, un produttore a cui devo tutto. Si prese cura di una ragazzina della provincia che non sapeva neanche come raggiungere Milano. Dopo la morte di mio padre mi continuò a seguire, tranquillizzando le paure di mia madre. A Milano, grazie a una casa discografica europea che amava il bel canto italiano, andai a vivere in una pensione di suore.

Oltre a viverci tutti la consideravano la suorina della canzone italiana. Perchè cominciò con le canzoni di una suora?

La mia casa discografica mi propose di incidere le canzoni di Suor Sorriso, una suora domenicana che vendeva in tutto il mondo tranne che in Italia. Io non volevo inciderle perchè avevo paura di sembrare una suona canterina. Mi convinsero promettendomi una partecipazione al “Disco dell’estate” con “Tu sei quello”. Suor Sorriso, però, è stata la mia fortuna: grazie a quelle canzoni sono diventata famosa. Erano conosciutissime in Italia, in Vaticano…

Così conosciute che Benedetto XVI ricordava questo suo esordio religioso.

Sì, Papa Benedetto ricordava quelle mie canzoni. All’epoca viveva a Milano e frequentava il direttore di Famiglia Cristiana Don Sciortino, un mio caro amico.

Poi, però, arrivarono pezzi come Via dei Ciclamini. Altroché clausura e suorine.

Direi. È una canzone che ricordava le case chiuse di Milano, in particolare quelle di Via dei Ciclamini. In una trasmissione televisiva Costanzo fece un appello per ritrovare qualche vicino di casa. Telefonò una signora che confermò la storia. Sua madre era una sarta che ricamava molto spesso camicette da notte audaci oppure vestaglie peccaminose in raso colorato. La signora disse che le consegnavano proprio in Via dei Ciclamini, al 123.

Da cinquant’anni canta l’amore: che cosa ha capito di questo strano sentimento?

Ha ragione lei: è uno strano sentimento. Si trasforma, di persona in persona. Io sono dell’idea che l’amore non è quello focoso, ma quello duraturo, rispettoso, quello che non ti abbandona mai. Ci sono tante persone che hanno sofferto per amore, che sono state ammazzate per amore, che hanno avuto amori turbolenti. Non amo il sentimento delle grandi passioni perchè finisce presto, si brucia in pochi anni. L’amore basato sul rispetto delle persone è quello che continua. All’amore preferisco il volersi bene.

Il suo bene l’ha trovato in Osvaldo, un uomo-madre come direbbe Barbara Alberti.

Io sono stata fortunata. Ho trovato un amore duraturo, protettivo, amico. Ho trovato Osvaldo che mi ha accompagnata sentimentalmente e professionalmente, senza competizioni, in questo lungo percorso. 

Nella sua carriera non ha mai cercato di dimostrare un impegno, di scimmiottare generi stranieri o cantanti blasonati. Che Paese ha cercato di raccontare?

Negli anni ’70 in Italia c’erano i cantautori, la politica, le proteste. Noi artisti del belcanto eravamo totalmente in disparte. Così, io cominciai a riproporre delle canzoni popolari. Cantavo “Come li porti i capelli bella bionda”: brani che da sempre appartenevano a tutti e rappresentavano la terra, le mondine, le donne di strada, i versi delle trattorie. Oltre l’amore e l’ironia, ho cantato un Paese semplice, che non si vergognava del suo dialetto, dei suoi luoghi, della sua umiltà.

Il suo primo Sanremo con la Vanoni come andò? La stampa parlava ancora della suorina e della peccatrice…

Sembrava un film di Totò. Lei non voleva farsi fotografare con me, ma personalmente non mi importava nulla di questa cosa. Nel tempo ci siamo riviste e mi ha detto che in quel periodo era troppo innamorata e pazza per farsi fotografare.

Oggi siete amiche?

Sì, ci telefoniamo spesso. Qualche giorno fa le ho mandato i cuoricini per il suo compleanno. Quando ci vediamo ci scambiamo cibi e dolci.

La cucina, eccola: “i biscotti dell’Orietta” sono famosissimi.

La ricetta è di mia madre, ma li faccio fare da Giordano, un caro amico fornaio. Li faccio da lui perchè ne regalo tantissimi. Da sola, a casa, non riuscirei a fare quasi quaranta pacchi per più di trecento biscotti.

Ricordare Sanremo, per lei, è anche dolore. Nel 1967 Luigi Tenco si suicidò e in quel biglietto d’addio citò il suo brano. «È un atto di protesta contro un pubblico che manda avanti “Io, tu e le rose” in finale». Quanto le fa male ricordare quel momento?

Molto. Il pubblico mi aveva premiata, ma lui non venne nemmeno salvato dalla critica di qualità composta da giornalisti e intellettuali. Chi lo incensava sempre preferì salvare “La rivoluzione”. Tutti i giornalisti, poi, se la presero con me perchè avevano sulla coscienza quell’eliminazione. Io, però, non ho mai creduto a quel biglietto. Non erano nelle corde dell’intelligenza di Luigi Tenco quelle parole, non potevano essere state scritte da una persona così.

Quell’anno lei vinse il referendum popolare di Sorrisi. Gianfranco Manfredi ha scritto che lei ha avuto la disgrazia di essere popolare. La popolarità è una disgrazia in Italia?

Sì, è una disgrazia. In Italia per la critica tutto quello che sceglie e apprezza il pubblico fa schifo perchè la gente comune non è colta come loro. Snobbano tutto senza capire il perchè di un determinato successo. Ignorano, più che comprendere. Alla fine, è meglio essere snobbati da un pugno di persone che non essere amati da un Paese intero. 

Gli artisti, come lei scrive, sono fragili. L’unica salvezza è la legittimazione del pubblico?

Avere un pubblico è la fortuna più grande. Ti dà la forza di continuare, migliorarti, andare avanti anche dopo più di cinquant’anni di carriera. Il mio pubblico mi rende viva.

Confessa in queste pagine che non ha più l’urgenza, la fame e la pressione di fare di più, di fare ancora. La vecchiaia che tempo è?

Penso che il tempo corra troppo veloce. Dopo i trent’anni il tempo è velocissimo e non lo puoi più fermare. Spero di cantare ancora, di essere in buona salute. Io oggi mi sento una roccia, però gli anni passano e pesano.

Il covid la spaventa?

È un periodo bruttissimo per chi ha la mia età. Faccio sempre il test ogni dieci giorni, ho già fatto il vaccino per lo stafilococco e ora aspetto quello per l’influenza. Ho un grande senso di responsabilità, ma non voglio fermarmi.

Finchè la barca va, insomma…

Esatto. Quella canzone mi ha insegnato a vivere in semplicità, in amore e in salute: le cose che restano di una vita. Puoi essere ricco, bello, con tanti amanti, ma non serve. Nella vita chi si accontenta, come diceva mia nonna, gode di più.

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