L’America delle donne: tra violette e iris selvatico, la poesia giardinaggio di Louise Glück è un’illusione che non finisce mai di far crescere speranza

by Giammarco Di Biase

Immaginate un giardino vasto, quasi senza confini. Immaginatelo senza privazioni. E’ riempito da un’abbondanza di fiori e specie diverse. Piccole erbacee annuali o perenni dai tipici fiori labiati, il Trillium. Il bucaneve, il biancospino, il Lamium, il papavero rosso, il trifoglio. Una vastità di fiori, di generi, in un giardino edenico del Vermont.

Adesso riempitelo di musica, o di parole, che nella poesia possono essere la stessa cosa, osservatelo primeggiare con la musica di Bach o con i brani ungheresi di Mihàly Vìg. O altrimenti, vivetelo apprezzando i colori disparati in silenzio, altra musica assente, che è comunque poesia. Questo giardino, questo cuore di Scilla, di Zizzania infestante con fiori a spiga rossa, di Polemonio, conosciuto come la scala di Giacobbe, originario di zone temperate e artiche ma che si trova anche nelle Ande meridionali del Sud America, adesso fotografatelo al vespro. Fotografatelo nel mattutino, in primavera quando c’è ancora da nevicare, in mezza estate, nel caldo torrido o nel clima settembrino che sfiora come una margherita selvatica, senza riguardi e senza tempo, che cresce anche nelle strade oltre il giardino, tra le inferriate, che sfiora dicevamo, l’autunno.

Potrebbe essere già questo poesia, e in effetti lo è, tra i colori, una canzone, il silenzio e la musica naturale, quella del creato. Ma tutte queste sensazioni, questa folgore di bellezza, fulminante visione, è circoscritta proprio come i metri quadri di un giardino in centimetri di pagine e di poesia scritta, in un libro che ci sembra splendido erbaceo e verdastro, per cui Louise Glück, poetessa ormai quasi ottantenne si è aggiudicata il premio Nobel in ritardo, e con tanto stupore, nel 2020. Si chiama L’iris selvatico questo potente giardino poetico, edito da noi in Italia dal Saggiatore con una traduzione di Massimo Bacigalupo insieme ad un’altra raccolta poetica che ha come titolo Averno, luogo leggendario e mitologico ingresso dell’inferno, dove non passano e non respirano gli uccelli. Opera che risale al 1992, premiata con il premio Pulitzer nel 1993, che sembra avere molto a che fare con la grandezza e la semplicità della poesia di Emily Dickinson, con la sua austerità, e sembra risentire amabilmente di alcune poetesse lucide, che ammiccano nel dolore ad una forza ironica leggere e sottile, come Sylvia Plath e Anne Sexton.

Louise Glück nasce a New York il 22 Aprile 1943 in una famiglia di immigrati ungheresi ebrei e trascorre la sua infanzia a Long Island. Durante la sua adolescenza soffre di anoressia nervosa. Inizia poi, il trattamento psicoanalitico, durato circa sette anni. Di quel periodo scrive:

“Ho capito che a un certo punto sarei morta. Quello che sapevo in modo più vivido, più viscerale, era che non volevo morire”.

Nello stesso saggio descrive la malattia come il risultato dello sforzo di affermare la propria indipendenza dalla madre; in un altro testo, la collega alla morte della sorella maggiore, un evento avvenuto prima della sua nascita. Alla psicanalisi attribuisce il merito di averla aiutata a superare la malattia e di averle insegnato a pensare. Dopo aver lasciato la Columbia senza una laurea, Louise Glück si mantiene con un lavoro da segretaria. La sua prima raccolta di poesie, Firstborn, pubblicata nel 1968, riceve una buona critica. Nel 1973 dà alla luce un figlio, Noah, il cui padre, John Dranow, suo futuro secondo marito, è un autore con cui aveva iniziato il programma estivo di scrittura al Goddard College. Di recente è stata nominata Poeta laureata degli Stati Uniti, cioè la poetessa chiamata a rappresentare l’intera nazione.

E’ proprio a John, suo marito e a suo figlio Noah che dedica la sua raccolta The Wild Iris. Anche loro, infatti, appaiono in questa raccolta, in quelle che sono delle microscene tra la cura del giardino, in tableau vivant, quadri veri e propri di quotidiano lirismo, la sopraffazione della natura sfuggente che guarda ad un cielo eterno a cui non appartiene pur innalzandosi da terra crescendo in spessore e in altezza, l’isolamento dell’essere umano e la sua memoria. I fiori parlano ad ogni inquadratura poetica, i titoli catturano come un sillabario la sintassi scientifica dei loro nomi. Le poesie sembrano imitare la crescita ad esempio di un fico, il suo temperamento, il suo essere nella natura, in certe zone e in altre no, in certe condizioni climatiche e non, con un motivo preciso, iscritto dal Signore. C’è quasi una fessura di prosa nel susseguirsi delle poesie, nel libro è contenuto un tempo e uno spazio, le stagioni diventano primavera, appare poi l’estate, la secchezza e la durezza del sole, la brezza dopo il caldo e la cadenza dell’autunno dove i colori prevalenti sono sempre il giallo e il marrone.

C’è un racconto alla base de L’Iris selvatico, un filo leggero che si muove negli attimi e che dà limpidezza e serietà alle preghiere della poetessa americana. Il racconto è tutto metaforicamente epistolare, c’è un linguaggio della donna poetessa che chiede senza risposta al Signore, e c’è il Signore che risponde senza che la sua risposta sia percepita con un linguaggio semplice e uguale, ma opposto alle orecchie e alle vanità degli uomini mortali. Louise Glück sembra materializzarsi tra i fiori, sembra far parte della loro specie, sembra parlare a loro nome, prima cimentandosi nel giardinaggio come Dio umano che dà vita e infonde acqua nelle radici, poi carburando le sue emozioni e sensazioni terrene prendendo come spunto l’educazione e la silhouette di un fiore.

Imprigionato nella terra, non vorresti anche tu andare in cielo? Io vivo nel giardino della signora. Perdonami, signora: la smania mi ha tolto la grazia. Non sono quel che volevi. Ma come gli uomini e le donne sembrano desiderarsi a vicenda, anch’io desidero conoscere il paradiso […]

Tutto in Louise Glück è un richiamo alla preghiere, è una continua impotenza ad innalzarsi. Anche la neve, quel simbolo, quel segno o l’attesa di un segno dall’alto diventa un significato terreno violento, che non ha niente a che fare con al fede, ma che è capitolazione di un credo, rottura con la voce di Dio. La natura è un mediatore tra cielo e terra silente e impotente, quella natura coniugata dall’attrito di Adamo ed Eva che non hanno colpa nell’essersi toccati ma che hanno perso la loro memoria senza peccato per diventare ultraterreni, qualcosa che reca al trascendentale, ma che vanifica la sua impresa.

Ma Dio non è solo benevolo, è anche severo, dimentica i nomi di tutte le specie come di tutte le sue creature, fa un carico periodico di presenze, poi perde come un umano il ricordo e l’attenzione. E’ qui che non si schiera né per il bene degli uomini né per il loro male. Risulta una voce indifferente, autoritaria che rischia le fattezze dell’uomo che non guarda il cielo più come un bambino, ma caduco perde il suo pensiero, la salvezza verso noi altri qui in giù, nel giardino assomigliante all’Eden.

C’è in Louise Glück un grande tentativo di copiare la grandezza e la bellezza delle cose salve e sante del Signore, ma c’è anche il dirompente attrito con il verbo delle sue poesie, quella Parola da destinarsi sempre a mani operose e operaie di uno spazio tempo legato alla morte, un giardino intero che sfuggirà, quello dell’uomo giardiniere che non crea più una comunità e non fa parte di un Paradiso. Al tempo che distrugge i suoi esseri, li moltiplica e li dà alla morte, un trapasso terreno incondizionato e ripetuto.

La poesia dei grandi poeti fa questo, dimora nel continuo elevarsi della parola, per poi planare a volo basso verso la nostra più grande verità, quella di essere esseri mortali.

Mentre un uomo e una donna fanno
fra loro un giardino come
un lenzuolo di stelle, qui
indugiano nelle sere d’estate
e la sera diviene
fredda dal loro terrore: potrebbe
finire tutto, è passibile
di devastazione. Tutto, tutto
può essere perduto, per l’aria profumata
le colonne sottili
che si alzano inutilmente, e più in là,
un mare agitato di papaveri–

Zitto, amore. Non mi importa
quante estati vivo per ritornare:
in quest’unica estate siamo entrati nell’eternità.
Ho sentito le tue due mani
seppellirmi per sprigionare il suo splendore.

“Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura e la via della grazia. Tu devi scegliere quale delle due vuoi seguire. La grazia accetta di essere disprezzata, dimenticata, sgradita; la natura vuole solo compiacere se stessa e spinge gli altri a compiacerla. Chi segue la via della grazia non ha ragione di temere.”
“Ho atteso una vita nell’attesa che accadesse qualcosa e quel qualcosa era l’attesa.”

Lousie Glük sembra parlare nelle sue poesie con la stessa autorialità e la stessa cadenza del grande regista statunitense di The tree of life Terrence Malick.

L’eternità che resta alla poetessa e a noi lettori è quella nell’attendere che le stagioni si ripetano e d’improvviso godere della stessa bellezza di sempre. La natura che ha a che fare sempre con la gravità, con l’atto ultimo degli uomini, che non ci rende graziosi, è ai nostri occhi non solo manipolazione o segno effimero, ma anche vicinanza alla copia che noi vogliamo credere sia quella del nostro Signore. Un’illusione che non finisce mai di far crescere speranza.

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