“Caccia al paziente zero” di Cristina Carlà: il racconto dell’isolamento è un male insito e antico

by Paola Manno

Ciò che da mesi stiamo vivendo, l’isolamento, la paura, la speranza, ognuno degli aspetti legati alla presenza del Covid nella nostra quotidianità, è diventato ben presto racconto. Centinaia di voci stanno raccontando la pandemia, da ogni parte del mondo. Sono quelle di scrittori, giornalisti, pittori, registi che hanno sentito l’esigenza di mettere per iscritto o di narrare per immagini soprattutto la paura, e insieme il desiderio che tutto passi presto. Esigenza forte che ha avvertito anche Cristina Carlà, talentuosa, eclettica scrittrice e traduttrice salentina che, lo scorso maggio, ha scritto “Caccia al paziente zero”, un breve racconto sulla ricerca ossessiva di un colpevole e, più in generale, sulla normalizzazione del male.

Il Covid costringe al sacrificio e allora si sente il bisogno di un capro espiatorio. Chi lo cerca? Quasi tutti, il vecchietto che porta a passeggio il suo cagnolino e la maestra, che fa le crostate, dei nostri figli. Ecco che varie categorie sociali raccontano un male insito e antico, lo stesso che un tempo lontano ha portato al rogo donne e uomini che hanno osato dire la verità. Il racconto di Cristina è diventato un cortometraggio, girato lo scorso inverno dal regista Vints Carlà, classe 1989, nato e cresciuto tra i muretti a secco del Salento, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna (Linguaggi del Cinema) e attualmente docente di laboratorio di tecnologie e tecniche delle comunicazioni multimediali a Trieste. Da sempre interessato al racconto di contesti socio-culturali marginali, decide, in questo interessante lavoro, di partire dal testo, mettendolo al centro della narrazione, illuminandolo attraverso l’uso sapiente delle immagini.

Così sulle immagini in bianco e nero di un vecchio casolare, su quelle di una donna che si affaccia al balcone, ecco che irrompe una voce che è un fiume e che spezza sin dai primi versi tutti gli argini. Cosa vediamo? Le immagini del casolare si mescolano a immagini d’archivio, a colori. Sono quelle appartenenti a due famiglie lontanissime, quelle dell’autore e quelle di una famiglia americana: un bambino mangia gli spaghetti, un altro corre su una spiaggia, un gruppo di uomini e donne organizzano il pranzo di Natale, ragazzini rotolano nella neve… come scrisse Lev Tolstoj, tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro.

Vediamo immagini del passato che oggi, alla luce di ciò che stiamo vivendo, hanno un sapore amaro, che va oltre la nostalgia del trascorrere del tempo, ma è piuttosto legata a una questione mentale: gli abbracci che ci sono negati, le cene con decine di invitati, lo stare insieme che sembrava la cosa più banale del mondo, finché ci è stato tolto. Vediamo una donna che cammina su una strada desolata, da sola. Vediamo, più di ogni altra cosa, la parola. La parola che è viva e che regge il peso della narrazione, la parola che tiene incollati allo schermo perché vuoi sapere come andrà a finire quella caccia, perché vuoi continuare a farti cullare da quella voce che è insieme ironica e tragicissima.

Il dialetto, lingua vivissima, è utilizzato per riportare l’esperienza onirica di una donna accusata di essere quel paziente, mentre l’italiano, la lingua seria, di serio conserva tutta quanta l’ironia della narrazione. E siccome si vuole andare lontano, i sottotitoli in inglese rendono il film pronto a un futuro festivaliero.

Capitolo a parte, la musica del polistrumentista Toni Tarantino che, in questi ultimi 7 anni, ha messo a frutto il suo talento suonando in quasi 600 concerti in tutto il mondo e che ha collaborato, tra gli altri, con l’icona attuale del reggae internazionale Alborosie, con Dj Gruff, i Negramaro, Elisa, Jovanotti, Fedez, Nina Zilli. La sua colonna sonora rende prezioso ogni passaggio, nota dopo nota.

“E’ nato tutto per gioco!” mi racconta Cristina “Toni ha sposato il progetto e ha deciso di sostenere il film attraverso la sua arte. Il nostro è un piccolo film indipendente che ci piacerebbe portare in giro”.

Già, il racconto dell’isolamento, della paura e della speranza ha la voce di grosse produzioni ma anche di piccole opere pulsanti ma altrettanto necessarie.

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