Helin Bölek, colei che amava la parola Libertà più della sua vita

by Paola Manno

Vorrei scrivere per Helin parole colme d’amore. Parole che ricordino la sua giovane età, parole come fuoco, passione, bellezza. Parole che ricordino questi giorni di primavera in cui è andata via, come, ad esempio, mandorlo in fiore. Parole che ricordino la sua terra, parole come ulivo, come lotta, come dittatura.

Parole come quelle che Helin senza dubbio doveva amare più della sua vita. Prima fra tutte, parole come libertà.

Helin, voglio scrivere per te parole che assomigliano alla musica, come usignolo, come vento, come tempesta.

Helin, rivedo le immagini di te cantare davanti a un pubblico di centinaia di ragazze e ragazzi, a Istanbul, pochi anni fa. In un vestito bianco cantavi Bella Ciao. Rivedo te con le guance che sorridono, e poi il tuo viso consumato dalla fame che ti ha reso un’altra.

Avrei voluto piangerti in una piazza turca insieme ai tanti che ti hanno amata, avrei voluto portare la tua bara di legno, insieme alle altre donne che lo hanno fatto.

Questi giorni sono pieni della tua morte, Helin, e la tua morte io la trovo insopportabile.

Helin Bölek è morta il 3 aprile 2020, dopo 288 giorni di sciopero della fame. Aveva 28 anni. Era la voce di Grup Yorum, un gruppo famoso per i canti di protesta contro il Governo turco. La band era nata a seguito del colpo di Stato militare del 1980, voce degli oppressi in Turchia e nel resto del mondo, che ha pubblicato oltre 20 album. Arrestata lo scorso maggio e accusata di essere una terrorista, Helin aveva iniziato uno sciopero della fame chiedendo che i musicisti venissero rilasciati e che la band potesse tornare ad esibirsi. Scarcerata a novembre, aveva continuato lo sciopero perché le sue richieste erano rimaste inascoltate.

Quando non si ha nulla, chi lotta mette in gioco tutto ciò che ha: anche la propria vita. Cosa insegna, mi chiedo, questa morte alle persone libere? A cosa serve un sacrificio talmente enorme da fare così male? Perché deve servire a qualcosa, deve per forza.

Lo sciopero della fame è un’arma estrema dei più fragili, l’arma degli ultimi, l’ultima risorsa, più disperata delle pietre lanciate contro le bombe, più straziante delle urla nelle carceri senza finestre.

Quando un paese non ha paura dei propri martiri vuol dire che il suo potere è malato, vuol dire che quello non è un paese libero.

Quando il popolo pensa che la morte di una donna di 28 anni a cui hanno tappato la bocca, ma che non ha smesso di urlare, sia una morte inutile, vuol dire che non sa cosa sia la libertà.

Allora, nella frustrazione di non trovare parole che possano dire la forza del tuo sacrificio, la sua importanza per tutti quelli che credono nella libertà di pensiero, di coscienza, d’espressione, di parola, io posso solo ricordare i versi di un poeta, Borges, che ha cantato l’uomo nella sua profonda solitudine. La poesia si intitola “Deserto” e i versi sono:

Prima di entrare nel deserto

i soldati bevvero a lungo l’acqua della cisterna.

Ierocle gettò per terra l’acqua della sua brocca e disse:

Se dobbiamo entrare nel deserto,

io sono già nel deserto.

Se la sete deve bruciarmi,

che già mi bruci.

Questa è una parabola. (…)

Nessuno sulla terra

Ha il coraggio di essere quell’uomo.

E invece tu hai avuto il coraggio di essere quell’uomo, Helin. In questa terra di piccoli pensieri, tu sei il gigante che ha attraversato il deserto.

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