Il “fiore calpestato” di Antonia Pozzi, anima inquieta e poeta raffinata e sensibile, ancora troppo poco studiata a scuola

by Paola Manno

“Signorina, si calmi”, aveva scritto, nel 1935, il filosofo Antonio Banfi alla giovane Antonia Pozzi, che gli aveva chiesto un giudizio sui suoi versi. “Si calmi”: l’avrebbe detto anche a Vittorio Sereni, a Remo Cantoni o un altro poeta uomo?

A me pare che il monito di Banfi racconti principalmente due cose. La prima è legata al furore della poesia dell’autrice, che deve probabilmente avergli fatto paura. La seconda, quella legata all’invito a rasserenarsi, dice invece che a una donna alcune passioni non erano ancora concesse. Anima inquieta, poeta raffinata e sensibile, Antonia Pozzi lascia versi preziosi alla poesia italiana del ‘900, ancora troppo poco conosciuti, poco studiati nelle scuole, poco a disposizione dei giovani che avrebbero il diritto di leggere le sue parole di fuoco.

Lo scrisse anche Maria Corti, che la conobbe all’università, “il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica”.

Figlia di un importante avvocato milanese e di madre di nobili origini, Antonia crebbe nel privilegio della cultura. Al liceo si innamorò del suo professore di greco, Antonio Maria Cervi, al quale dedicò versi struggenti, ma la relazione venne ostacolata dalla sua famiglia. Si laureò nel 1935 alla facoltà di Filologia, continuando a coltivare i suoi molti interessi, tra i quali la fotografia, i viaggi, le lunghe passeggiate e, naturalmente, la poesia.

Nonostante le frequentazioni milanesi, amò profondamente la montagna, dove trascorse molto tempo nella villa di famiglia di Pasturo, in provincia di Lecco. Della natura solitaria è piena la sua poesia. Nella raccolta Tu sei l’erba e la terra, Garzanti, la poetica dell’autrice si manifesta sin dai primi versi. Vi è innanzitutto il dolore per l’amore che finisce.

“Sai: su quel divanetto ho tanto pianto/ quando ho saputo che tu non tornavi (…) Una lieve vertigine mi ha colto/ e sono uscita: fuori, sotto il portico,/ c’era una rondine, che s’è spaventata/ ed ha squittito tanto acutamente/ che ne ho avuto uno stupido sobbalzo”

(Ritorni, 1929)

Il suo dolore si fonde con quello delle altre creature terrestri, animali e piante che popolano la montagna; i suoi versi ricordano lo scalcinato muro di Montale, la soglia e il confine: “Forse ero solo un ramo crasso e irto/ di fico d’India, dietro un vecchio muro” (Vaneggiamenti).

Tutto l’universo pare partecipare alla sua pena.

“Ieri sera le stelle/ erano fitte come i battiti del mio orologio/ Questa sera sono cadute tutte nella strada”

(Vuoto, 1929)

E poi c’è il corpo, del quale ha una coscienza chiara, il suo corpo al quale si avvinghia per salvarsi, come se non potesse contare su nessuno, ma solo su se stessa:

“Sola mi rannicchio/ sopra il mio corpo magro. Non m’accorgo/ che, invece di una fronte indolenzita/ io sto baciando come una demente/ la pelle tesa delle mie ginocchia

(Solitudine)

e ancora le crude parole in Canto della mia nudità

“Guardami: sono nuda. Dall’inquieto/ languore della mia capigliatura/ alla tensione stella del mio piede (….) Oggi m’inarcherò nuda/ domani sopra un letto, se qualcuno/ mi prenderà. E un giorno nuda, sola/ stesa supina sotto troppa terra/ starò, quando la morte avrà chiamato”.

Le cose del mondo, le bellezze della montagna, le pinete, le stelle alpine, le genzianelle, il rumore dell’acqua, le nubi, tutto l’attrae ma allo stresso tempo la respinge, la spaventa. Pozzi apre le braccia per coglierne l’essenza ma allo stesso tempo ha voglia di fuggire. Il suo cuore brucia, e lei lo sa:

“Così ardente/ fu già la vita mia: un fascio d’erba/che s’incendia del folto, di rapente,/ e brucia il monte”

(Preghiera)

ma che a un certo punto pare spegnersi

“Ora non più: ora il gran fuoco è spento./ L’anima mia somiglia un lago piano,/ un lago senza cielo, senza vento,/ senza vita”. Dall’ardore del cammino si passa alla stanchezza della ricerca, al desiderio di quiete “Non domandatemi se prego/e chi prego/e perché prego./ Io entro soltanto/ per avere un po’ di tregua”

(Largo)

C’è, nell’opera dell’autrice, la profonda coscienza del dolore, che sembra non poter essere sconfitto. Eppure Antonia ha conosciuto la bellezza della vita, che continua a ricercare, e che ancora descrive con elementi facili, come quelli che abbiamo dentro gli occhi tutti i giorni, di cui la poesia, nei secoli, ha abusato, ma che evidentemente sono ancora in grado di esprimere sentimenti.

“Non c’è nessuno che vende/ i fiori/ per questa strada maledetta?/Chi mi vende oggi i fiori?/ Io ne ho tanti nel cuore, ma calpestati”.

Così l’immagine del fiore calpestato diventa metafora dell’infelicità che Antonia Pozzi non è riuscita a gestire, legata senza dubbio al suo amore perduto, ma anche al cupo clima politico in cui visse, alle leggi razziali di cui furono vittime molti amici, all’incomunicabilità con la sua famiglia che non comprese le sue fragilità. Il dono della poesia non resse il peso del suo male di vivere che la spinse a morire, suicida, ad appena 26 anni.

Restano i suoi versi che cullano i pensieri di altre donne e di altri uomini, resta la sottile inquietudine che ognuno conosce, e ogni tanto riaffiora, e che ci ricorda il baratro ma anche la luce.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.