Ilaria Alpi, un mistero lungo 28 anni

by Paola Manno

Per molti anni, dal 1995 al 2014, è stato assegnato il “Premio Ilaria Alpi” alle migliori inchieste televisive italiane dedicate ai temi della pace e della solidarietà

Ci sono scuole intitolate alla giornalista, ci sono parchi, biblioteche, luoghi di cultura con targhe che portano il suo nome. A 28 anni dalla morte Ilaria Alpi vive nel ricordo di un’Italia che non ha ancora trovato risposte alla sua tragica fine, ma soprattutto vive nella coscienza di chi crede che l’informazione libera sia un diritto inalienabile.

Guardo le immagini delle Teche Rai e Ilaria è una giovane donna che ha di fronte una ragazza somala che le racconta: “Le donne velate ora sono tantissime. Le donne, se restano sole, hanno sempre bisogno di aiuto”. È il 1992 e le truppe italiane sono appena sbarcate a Mogadiscio. Davanti alla telecamera la giornalista riporta la notizia della visita del presidente Bush: la distribuzione degli aiuti umanitari può attendere, sottolinea.

Ilaria racconta come è stata l’accoglienza degli italiani, impegnati in operazioni umanitarie, da parte della popolazione locale. Riporta le difficoltà riscontrate nella consegna dei beni di prima necessità, a causa dei continui assalti ai camion da parte di banditi predatori. E poi le case saccheggiate, le violenze sulle donne, i conflitti tra etnie diverse, i fondamentalisti islamici che hanno occupato il porto, parla di un Paese diviso senza legge, che potrebbe esplodere una volta partito l’ultimo militare straniero. Gli americani parlano di civiltà, giustificano la loro presenza lì in nome di una pace da costruire ma Ilaria raccoglie anche la voce di chi subisce, di chi non accetta e reagisce a suo modo.

Descrive la realtà delle ONG che lavorano con piccoli interventi, i microprogetti che mirano a insegnare l’indipendenza, la presenza della Caritas, quella delle suore italiane che non se ne sono andate neanche nei tempi più bui. A Mogadiscio i militari italiani ricostruiscono l’ospedale e, vinta l’iniziale diffidenza, le donne locali iniziano a recarsi lì per partorire. Ilaria non ha paura di entrare nei bunker dei fondamentalisti, di riferire all’Italia di Mani Pulite delle bandiere americane strappate, della rabbia dei somali contro i bombardamenti aerei statunitensi.

Il 2 luglio del ’93 al checkpoint Pasta muoiono tre soldati italiani in un agguato e Ilaria Alpi è lì “Alle 10 è scoppiato l’inferno, è guerra aperta” così la giornalista annuncia l’ennesimo conflitto “E’ un triste copione”.  Nel settembre del 1993 i somali alzano il tiro contro gli Stati Uniti e il nuovo presidente Clinton inizia a parlare di soluzione politica.

Orrore e morte, nessuno spazio per le rappacificazione, scene raccapriccianti di cadaveri americani trascinati e uccisi esultando, dai membri dell’Alleanza Somala. La situazione precipita nel Paese” riporta la giornalista. Le parole accompagnano le immagini che sembrano sempre le stesse, anche trent’anni dopo. Ci sono dei bambini che danno fuoco a dei copertoni di pneumatici di camion, sorridendo davanti alla telecamera, facendo il segno di vittoria con le dita, la città martoriata come sfondo. Ilaria Alpi ha portato nelle case degli italiani la guerra di un Paese lontano che, però, gli spettatori conoscono bene perché ha fatto parte della storia recente.

Ha riportato nei salotti del Belpaese il triste capitolo del colonialismo, le questioni sempre aperte, mai risolte della supremazia di una Nazione su un’altra Nazione. Nella primavera del ’94 le forze militari lasciano la Somalia e Ilaria e Miran Hrovatin, il cameraman che l’aveva accompagnata in quei mesi, ripartono per Mogadiscio per raccontare “quello che resta”.

Ancora una volta l’attenzione è rivolta alle preoccupazioni della gente e Alpi incontra chi è rimasto, riporta le testimonianze dei medici dell’ospedale dove tutto è stato riorganizzato, dove si teme che il sistema  possa crollare se non ci sarà continuità con il Ministero. Poi si reca a Bosaso dove “Manca tutto, mancano le medicine, il cibo. La stampa ha bisogno di cose brutali, e a Mogadiscio succedono cose brutali. Qui invece no” come riporta il Sultano Abdullahi Moussa Bogor, in un’intervista che, si scoprirà ben presto, è stata tagliata e montata in fretta. Cosa sappiamo di quell’incontro? Ilaria è a Bosaso per seguire la vicenda del sequestro della nave Faarax Omar, della flotta Shifco. Incalza il Sultano con domande sui legami tra i traffici somali e l’Italia, tenta di capire. Che cosa è successo in quel luogo sperduto, ma strategico? Cosa ha scoperto la giornalista italiana?

Ilaria e Miran vennero uccisi in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, subito dopo quell’intervista. Le indagini che ne seguirono portarono alla condanna di uno dei presunti killer, Omar Hashi Hassan, ma numerose testimonianze e documenti mettono in discussione la sua colpevolezza. Sulla morte di Alpi e Hrovatin da subito sono circolate le ipotesi più diverse, tra le quali la scoperta di traffici illeciti di armi e rifiuti tossici legati alla cooperazione, elementi emersi proprio da quella intervista che Ilaria realizzò a Bogor. In molti stanno ancora lottando per la verità.

La morte della giornalista è ancora una ferita aperta e ricorda oggi altre morti che chiedono giustizia. Ricordare oggi il nome di Ilaria Alpi -nelle targhe dei giardini, delle biblioteche, negli innumerevoli articoli e servizi televisivi, nelle pubblicazioni, nei documentari- vuol dire non dimenticare che l’informazione libera è alla base di un Paese democratico, civile, non sottomesso. 

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