“Volevano braccia, e invece sono arrivati uomini”, Marcinelle e la memoria di Lucio Parrotto

by Paola Manno

A volte capita, passeggiando in alcuni paesini del Salento, di imbattersi in piazzette assolate con al centro delle statue che rappresentano dei minatori. A Casarano c’è una statua proprio di fronte all’ospedale. “L’hanno voluta, e pagata, i minatori che hanno lavorato in Belgio, quelli che sono tornati al paese. Abbiamo voluto che fosse posizionata qui affinché chi si affacciasse alla finestra potesse vederla. Prima o poi, tutti i minatori finiscono lì dentro” mi raccontò Lucio Parrotto il giorno in cui l’ho conosciuto, 15 anni fa. Il signor Parrotto è stato uno di quelli che è tornato in Italia dopo aver lavorato per 25 anni in miniera; dopo la pensione, lo scopo della sua vita è diventato quello di tener viva la memoria di quello che è stato uno dei capitoli più dolorosi della storia d’Italia.

Con tenacia e ostinazione, per anni, ha raccolto tutto ciò che avrebbe potuto raccontare cos’è stata la vita in miniera: tute da operaio, lampade, caschetti, picconi, fotografie; ha raccolto articoli, ricordi,  lettere,  contratti di lavoro, registri, giornali. Ha persino acquistato dei grossi macchinari che le miniere in disuso hanno dato via, dei binari e dei carrelli che servivano per la raccolta del carbone, e sacchi interi di carbone. Si è fatto trasportare gli enormi scatoloni con dei camion, che ha pagato personalmente. Ha progettato da solo un museo, l’ha voluto, e costruito, come la galleria di una miniera.

Se oggi in Italia è presente un museo del minatore, unico sul territorio nazionale, lo dobbiamo alla caparbietà di un uomo solo. Visitare quel  piccolo museo permette di capire cosa è successo dopo la guerra: la fame e la miseria che hanno spinto una generazione a partire, le condizioni di lavoro e di vita in un’altra Nazione, la voglia di costruire un Paese migliore. Per me che sono cresciuta con i racconti dei miei nonni minatori, ogni oggetto in quel museo è familiare. Tutti quelli che hanno vissuto in Belgio conservano una lampada della miniera, una foto di un gruppo di uomini con il piccone in mano. Durante gli anni di studio sulla comunità dei minatori salentini in Belgio, ne ho conosciuti moltissimi di lavoratori, ma l’aver incontrato la caparbietà di Lucio Parrotto è stato un dono raro. Oggi che non c’è più, a causa della silicosi, malattia polmonare che ha portato via tutti quasi tutti quelli che hanno respirato per anni le polveri della miniera, la sua voce è ancora più forte. “Tutti devono ricordare” mi disse quel giorno vicino all’ospedale.

Ecco il perché quelle statue che trovano un senso in paesi che non sanno cos’è il carbone.  Le parole di chi è sceso in miniera sono tutte drammaticamente simili: “Siamo strati venduti per un sacco di carbone”. Nel 1946 vennero stipulati degli accordi bilaterali tra il Belgio, che necessitava di forza lavoro per l’estrazione di carbone nelle miniere del territorio, e i Paesi che potevano offrirne, tra cui la Spagna, la Grecia, l’Italia.

In cambio dell’invio di lavoratori, l’Italia riceveva un quantitativo fisso di carbone, fondamentale per alimentare le industrie del Nord che in quegli anni conobbero uno sviluppo straordinario. Tutti i minatori che ho incontrato mi hanno parlato dei grandi manifesti rosa affissi nelle piazze italiane, i cui testi allettanti parlavano a gente disperata, senza lavoro, dei tanti privilegi di un lavoro in Belgio: di salari regolari, di vacanze retribuite, di un alloggio sicuro. Nessun accenno al lavoro sottoterra. Così migliaia di uomini giovani e sani (dovevano sottoporsi a 3 visite mediche) salirono su un treno, viaggiarono per 3 giorni di fila, ammassati, in cerca di una vita dignitosa.

L’arrivo in Belgio fu traumatico per tutti. Quelli che venivano chiamati alloggi erano in realtà  strutture in lamiera con servizi igienici in comune, i minatori le chiamavano “le baracche”. Il vero inferno, tuttavia, era quello che gli uomini trovarono giù, sotto la miniera. Gli ascensori trasportavano gli operai fino a 1.500 metri sotto terra. Tutti ricordano la prima discesa: il buio, il calore, le grida di terrore; alcuni minatori venivano bendati. Quelli che si rifiutavano di scendere, ebbero modo di conoscere la realtà del carcere, perché alla partenza avevano firmato un contratto di lavoro per 5 anni.

Chi andava in Belgio era obbligato a fare il minatore, non c’era alcuna possibilità di lavorare in altri settori. Le miniere si strutturavano in grandi gallerie sottoterra, a più livelli, con al centro dei binari e i carrelli dove veniva raccolto il carbone, trasportato in superficie da piccoli ascensori.  Il carbone veniva estratto dalle vene laterali della galleria, una sorta di piccoli cunicoli, alti spesso solo 40 centimetri, in cui l’operaio trascorreva 8 ore a picconare. Il lavoro in miniera non aveva tregua, c’erano tre turni di 8 ore, la produzione non si arrestava mai. Gli incidenti erano all’ordine del giorno. Nel buio della miniera, nel rumore assordante dei trapani, dei picconi, dei carrelli, degli ordini in tante lingue diverse, migliaia di uomini hanno permesso lo sviluppo di una società industrializzata, moderna. Fuori dalla miniera, c’era un altro inferno, di cui pochi parlano, ed era quello delle donne. Le mogli dei minatori arrivarono dopo e furono quelle che hanno reso più umane le condizioni di vita dei mariti.

Mia moglie mise le tendine alle finestre, la carta da parati, i fiori sul tavolo. Aveva fatto della baracca qualcosa che assomigliava a una casa” mi raccontò un giorno un minatore. Le donne non scendevano in miniera, solo alcune lavoravano in superficie, con mansioni di lavaggio del carbone o  come addette alle pulizie. Molte donne, all’estero, trovarono in seguito un lavoro in fabbrica e per la prima volta provarono l’ebbrezza dell’indipendenza economica, ma erano tutte accomunate dalla stessa angoscia, dalle stesse paure. Ho parlato a lungo con le donne, con le mogli dei minatori.  Anche le parole delle donne sono tutte uguali. Le rivedo, sono tutte simili, tutte giovani, davanti alle finestre, in attesa di un uomo che non riconoscevano in mezzo a una folla di lavoratori tutti neri. “Uscivano tutti sporchi di carbone. A volte lo riconoscevo dalle labbra” mi confidò la signora Anna “Avevamo paura di tutto. Della malattia, degli incidenti. Il pensiero era sempre lì. Avevamo paura di non rivederli più”.

Le paure si trasformarono in realtà la mattina dell’8 agosto del 1956, quando per un errore umano un cavo elettrico venne tranciato da un carrello e nella miniera di Marcinelle si scatenò un inferno.  Nel “Bois du Cazier” , vicino Charleroi, morirono quel giorno 262 operai, tra cui 187 italiani, 22 pugliesi. Quello che successe lì sotto lo si può solo immaginare. Di quello che è successo in superficie resta una documentazione tragica, restano gli articoli sui giornali, le immagini della tv, le foto della visita di re Baldovino, le foto della disperazione dei compagni di lavoro, delle donne, dei figli di chi stava lì sotto. Le mani attaccate su un cancello chiuso – non facevano passare nessuno.

Quando ho visitato la miniera di Marcinelle, oggi diventata museo, la cosa che più mi ha fatto impressione è stata proprio quel cancello. Le fotografie mi avevano dato l’impressione che fosse un cancello enorme, e invece è piccolo come quello di un giardino. Piccolo come la vita di tutti gli uomini che lo hanno varcato, che alla luce dell’incendio è diventata enorme, importante, degna di esistere.

Ci vollero molti giorni per recuperare i corpi.

Dal giorno della strage l’Italia smise si mandare “forza lavoro” in Belgio. Da quel giorno i belgi si sentirono più vicini agli italiani, considerati, nei primi anni, come “mangiaspaghetti” o “mafiosi”.

Volevano braccia, e invece sono arrivati uomini” è un’altra delle frasi che ogni minatore mi ha citato.

Le statue ci raccontano questa storia eppure la storia si ripete. Forse Lucio Parrotto pensava a questo davanti a quell’ospedale. Alle braccia dei lavoratori ma forse, soprattutto, al cuore dietro quelle braccia. 

*Nella foto la Miniera di Beringen (Genk, Belgio). Il primo in piedi a destra è il nonno di Paola Manno.

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