La vita davanti a sè, la storia di due solitudini. Con la gigante Loren, barese, che non basta

by Paola Manno

La vita davanti a sé (La vie devant soi) è probabilmente uno dei romanzi più interessanti di Romain Gary. Vincitore del premio Goncourt nel 1975, conobbe il primo adattamento cinematografico due anni dopo nello splendido film del regista israeliano Moshé Mizrahi, vincitore di un Oscar come miglior film straniero.

Se è vero che i classici sono quelle storie che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire, come ha detto Calvino, confrontarsi con un’opera che parla di tolleranza, in un’epoca ostile come quella che stiamo vivendo, è senza dubbio una sfida interessante.

A distanza di quasi 50 anni ci ha riprovato Edoardo Ponti, che ha ripreso la storia di Gary ambientandola a Bari ai giorni nostri: Momo è un ragazzino senegalese che ha bisogno di essere accudito e si ritrova a casa di Madame Rosa, un’ex-prostituta ebrea che ha conosciuto l’orrore di Auschwitz. È la storia di due solitudini che si incontrano: quella di un bambino che ha imparato a cavarsela da solo, ma che non ha mai smesso di aspettare un abbraccio materno e quella di una donna che sembra invincibile ma si ritrova, a un certo punto, a dover accettare le proprie fragilità. Come spesso accade, sono proprio le anime più disperate ad avere la fortuna di incontrarsi, così questa strana coppia diventa la metafora di un dolore cullato reciprocamente, che può trovare sollievo. Nella grande casa dell’anziana Madame Rosa si incrociano inoltre le esistenze di molti bambini, figli di prostitute, che la donna accudisce per denaro, ma che finisce per amare. È in questa casa che si sentono pulsare i cuori degli ultimi, di quelli che non possono andare a scuola perché non hanno i documenti, di quelli dimenticati dalle cronache.

Il personaggio di Momo, interpretato da un talentoso e promettente Ibrahima Gueye, è di quelli che al cinema funzionano sempre, un giovane teppistello dagli occhi vivaci ma dal cuore tenero. È lui che nelle prime scene del film ruba due candelabri antichi a Rosa, è lui che risponde a tono, che è sboccato, irrispettoso, che spaccia marijuana nei vicoli di Bari per potersi comprare una bicicletta ma che finisce per trascinare, sulle stesse strade, la moribonda Rosa su una sedia a rotelle, riportarla a casa, in una notte che sembra non finire mai.

Il vero centro della narrazione è però il personaggio femminile, già interpretato nel 1977 da un’intensa Simone Signoret, qui impersonata da Sophia Loren che riempie ogni singola scena. Il film è costruito attorno a un’attrice che è, da una parte, una garanzia, dall’altra, naturalmente, un richiamo. La Loren è impeccabile in ogni smorfia, in ogni battuta. Si muove per le strade di un mercato rionale, nelle stanze di una casa piena di luce, danza in un soggiorno polveroso insieme ad una giovane amica, corre in mezzo agli ulivi, sperduta, si lascia trasportare dalla rabbia di un bambino e poi dal suo amore.

Ma Sophia Loren è anche altro, è il volto di un’Italia che tutto il mondo conosce e che ancora oggi racconta una femminilità orgogliosa. Madame Rosa è una donna che ha subìto la violenza della discriminazione, è una donna che ha venduto il proprio corpo per poter vivere, è un personaggio che richiama le decine che la Loren ha interpretato nella sua lunghissima carriera: dalla Ciociara a Filumena Marturano. Rivederla, invecchiata e fiera, in questo film è come rivedere mille altri volti che conosciamo bene, che fanno parte della nostra cinematografia bella e perduta.

Nonostante il gigante-Loren però, il film non riesce ad andare oltre una narrazione semplicistica del male e del male, senza riconoscerne le infinite sfumature. La sceneggiatura, troppo pretenziosa, sembra preoccuparsi di far entrare nella storia troppe cose dimenticando che spesso la bellezza, al cinema, in poesia, risiede nella sottrazione. Così la conversione dei protagonisti appare troppo semplice, troppo veloce, troppo inverosimile, così come troppo ostentata appare la metafora della stanza del passato, il rifugio in cui Madame Rosa ritrova una parte di se stessa. Troppo facile il distacco con la malavita da parte di Momo, troppo paternalistica l’attesa di un abbraccio finale di coloro che restano. La potenza del messaggio e l’eccellenza degli attori non basta a farci dubitare sulla percezione, da parte di chi lo ha scritto, della commerciabilità di un’opera come questa. Lo dimostra, tra le altre cose, anche la scelta della collaborazione con un altro nome italiano celeberrimo all’estero, Laura Pausini, il cui singolo “Io sì (Seen)”, contenuto nel film, è candidato agli Oscar 2021.

https://www.youtube.com/watch?v=imjSm7FNmwE

Quello che resta, dunque, davanti agli occhi dello spettatore, più che la potenza dell’opera di Gary è una sbiadita riproduzione di un pensiero che meritava probabilmente più cura dell’essenza nella quale risiede, e cioè la parola. A volte il cinema se ne dimentica, ed è davvero un gran peccato.

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