Louise Glück, quando il Nobel serve a riconoscere il talento, il coraggio e la raffinatezza di un’idea. “Per sedersi e per sognare”

by Paola Manno

Ha fatto molto rumore il titolo di un quotidiano nazionale che si interrogava su chi sarebbe stato il vincitore del prestigioso premio: “Il Nobel al tempo del Covid. Murakami o una donna?”.

Murakami non ha vinto e la donna si chiama Louise Glück e davvero al pubblico italiano deve essere sembrata una donna qualsiasi, con un nome sconosciuto. Oggi sui siti delle librerie e nei principali cataloghi di libri online i suoi scritti sono introvabili, oppure disponibili tra 3 o 4 settimane. Tra l’altro, gli unici titoli tradotti in Italia sono le due raccolte poetiche L’iris selvatico (Giano, 2003) e Averno (Dante & Descartes, 2019).

Nonostante questo Louise Glück, nata a New York nel 1943, è una donna, una poeta famosissima negli Stati Uniti, vincitrice del premio Pulitzer nel 2004, nominata al National Book Award nel 2014, vincitrice di numerosi premi importanti. I premi Nobel servono soprattutto a questo: a riconoscere il talento, o il coraggio, o la raffinatezza di un’idea, a darle visibilità, a presentarla al mondo, a celebrarla. Così i lettori italiani colmano una lacuna letteraria e se il nostro amato Montale biasimava i poeti laureati oggi probabilmente amerebbe la poeta laureata degli Stati Uniti che non scrive solo bossi ligustri o acanti, ma osa gli iris, le rose, gli ulivi, i papaveri rossi. Mai come in questo periodo così cupo il mondo ha sentito il bisogno di guardarsi dentro. “Con i soldi del Nobel comprerò una nuova casa in Vermont, nel New England”, un luogo ideale per poter scrivere in solitudine, ha dichiarato l’autrice in una recente intervista, e sembra condividere un’idea di molti. Così vince una voce che assomiglia a questi giorni, che da loro un significato, che li illumina e sembra coglierne il senso.

Bisognerebbe leggere poesie tutti i giorni, appena svegli e prima di andare a dormire, come una preghiera. Una poesia come questa, proprio di Louise Glück, dalla raccolta A Village life e che si intitola Twilight, Crepuscolo.

Così quando rientra di notte, a casa, si siede/alla finestra/ e guarda il tempo del giorno, il crepuscolo./ Dovrebbero esserci più momenti come questo, per sedersi e per sognare.

Il Premio Nobel è stato conferito a Glück “per la sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. Ecco è proprio questo, io credo, il senso di questi giorni così simili in tutti i luoghi della terra, in questi giorni pieni di paure e isolamento in cui davvero l’esistenza del singolo individuo diventa universale, e così i versi di una poeta che lo cantano da anni, oggi diventano necessari e vicini e perciò abbiamo bisogno di ritrovarli, di celebrarli.

Versi che ci appartengono perché hanno radici profondissime, comuni. Louise Glück restituisce figure di un passato che è di tutti, in cui ognuno può riconoscersi. Ecco il mondo greco che rivive in mezzo ai nostri giardini, alle tazze del caffè, ai cellulari, sulle nostre strade polverose, nella malinconia dei nostri amori e nelle paure dei mille fallimenti. Rivive l’impavido, l’amatissimo, il perduto Achille, a cui l’autrice dedica la raccolta poetica The Triumph of Achilles (1985) che racconta proprio l’ineluttabilità del dolore, che è quello di chi ama: Nella storia di Patroclo/nessuno sopravvive, neppure Achille/il semidio./Patroclo gli assomigliava; portavano/la stessa armatura.(….) Cos’erano le navi greche in fiamme/rispetto al suo lutto?/Nella tenda, Achille/piangeva con tutto il suo essere/e gli dèi videro/che era un uomo già morto, vittima/della parte che amava,/la parte mortale.

Nei versi di “The lady in the single” cita Andromeda, il cui cuore ronza/ mentre nessuno telefona. E sempre nella stessa raccolta cita Venere “I saw Venus among those clamshelles”. Ne “Il rimprovero” rivive il dio dell’amore: Mi hai tradito, Eros./Mi hai mandato/il vero amore./Tutta la vita/ho adorato gli dèi sbagliati.

Il suo è un dolore innanzitutto individuale, che Glück descrive con acume, spietatezza. In “Firstborn”, la sua prima raccolta poetica, scrive Sempre, ogni notte, sento l’oceano/che morde la mia vita, anche se aspira ad altro, e ancora sembra alzare la voce, rivendicare per sé un diritto Voglio/la mia innocenza. Vedo la mia famiglia, di ghiaccio, adesso, immobile, immobile ( in Bridal Piece).

È un dolore, il suo, che l’attraversa e che diventa comune, che finisce per assomigliare a quello di tutti gli altri uomini. Nessuno capisce sul serio/com’è selvaggio questo luogo/il modo in cui uccide la gente, senza ragione/ solo per fare un po’ di pratica (A Village life).

Louise Glück, insomma, non ha paura di guardare in faccia le cose del mondo e degli uomini, e di scriverne, che è poi la condanna dei poeti, però è capace di non dimenticare di dire a se stessa anche altre cose, cose che hanno a che fare con la fede, la speranza, quanto mai necessaria, e che assomigliano alle parole, alle immagini di altri grandi poeti come, appunto, Montale o come Hikmet: come i limoni e l’ulivo vive in Vespro un altro albero, un nuovo seme… Una volta credevo in te; ho piantato un fico.

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