Nomadland e la forza di Fern: non esiste il bisogno di possedere delle cose. Basta un van

by Paola Manno

La forza e la bellezza di Nomadland, scritto, diretto e montato della regista Chloé Zhao, risiede interamente, a mio avviso, nel personaggio di Fern, la protagonista.

La storia, infatti, è una storia fragile: c’è una donna che dopo aver perso il marito e il lavoro è costretta ad impieghi saltuari che le permettono di vivere, per la maggior parte del tempo, sulla strada. È una donna di mezza età, la protagonista del film, ed è una di quelle che ha scelto la vita nomade, e già questa è una novità nel panorama cinematografico attuale. Non ha un nemico contro il quale lottare, né l’ambizione di diventare ricca o famosa, né tantomeno quella di mettere radici, di avere una bella casa con un giardino, di vivere accanto a un uomo, di avere dei nipoti. Non esiste, per Fern, il desiderio di quelle piccole certezze alle quali attaccarsi quando si ha paura o quando ci si sente soli, non esiste il bisogno di possedere delle cose, se non, forse, una: il suo van, che è poi tutta la sua vita.

Con quello percorre deserte strade americane che non hanno nulla di epico, tutt’altro. La natura è aspra e silenziosa e anche gli uomini e le donne che, come lei, vivono in caravan e si incontrano e si confrontano, non hanno bisogno di scambiarsi tante parole, perché sembrano le stesse che esprimono lo stesso pensiero, che è appunto quello di non appartenenza.

Il paese di questi nomadi è un’America che conosciamo molto poco e anche Fern è un’americana lontanissima dagli stereotipi: la sua inquietudine è composta, gentile. Soprattutto, Fern è una donna che sa bene cosa vuole, e che cosa non, dalla vita. Sembra che non abbia alcuna paura del futuro, della povertà, del giudizio, ma che segua con una naturalezza sconosciuta una libertà che ha dei contorni ben precisi. Così di fronte alla semplicità di una trama che racconta quasi nulla, c’è la costruzione complicata di un personaggio che ha mille sfumature e una coerenza che mantiene salda in ogni gesto. Forse lo spettatore si aspetta qualcosa, un cambiamento, un richiamo, una scelta dettata dall’amore, e invece nulla cambia perchè Fern è così che vuole vivere, in mezzo al nulla nel suo van.

Inutile dire che Frances McDormand è impeccabile in ogni scena. Cammina, guida, si dispera per un piatto rotto, sorride a mezze labbra, legge e lavora duramente e il suo sguardo non cambia, eppure è magnetico, eppure racconta molte cose e molte altre ne suggerisce, e nonostante tutto hai quasi voglia di esser come lei, spoglia di ogni lusso, di ogni trucco, di ogni certezza, ma così tenacemente attaccata alla sua idea semplice di felicità. Neanche l’affetto, l’attrazione per un uomo riescono a farla sentire a casa, neanche le tenere manine di un neonato perchè Fern è lontana dalla retorica della coppia, da quella della maternità e di tutti quei valori così cari alla cultura occidentale. Raramente questi pensieri sono rappresentati al cinema, o nelle pagine scritte, ed è questa la parte più preziosa e potente del film.

Poi ci sono le ambientazioni, messe in risalto da una fotografia impeccabile, e la colonna sonora, firmata da Ludovico Einaudi che accarezza con dolcezza questa vita nomade, e i dialoghi, alcune riflessioni esplicite, altre accennate, e infine la regia sapiente e pulita di una regista giovane e talentuosa che ha osato scrivere, girare una storia di cui si sentiva davvero il bisogno.

Vincitore del Leone d’Oro alla 77esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincitore di ben 3 premi Oscar (miglior regia, miglior film e miglior attrice protagonista) e di numerosi riconoscimenti internazionali, Nomadland continua a riscuotere successo di pubblico proprio perché, io credo, gli spettatori ne riconoscono il valore aggiunto, quello di un personaggio che insieme attira e respinge e che ci mette di fronte a una riflessione non banale, di cui oggi più che mai ne sentiamo la necessità.

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