“Ogni mattina a Jenin”: la vita di Amal e di un popolo che ogni giorno subisce intollerabili ingiustizie

by Paola Manno

“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole” è l’incipit del romanzo di Susan Abulhawa, “Ogni mattina a Jenin”.

Ripenso spesso a queste parole di fronte alle immagini terribili che ogni giorno raccontano al mondo la Palestina calpestata. Un giorno quella era una terra bellissima. Una volta un giovane cuoco palestinese mi ha detto “La tua regione, la Puglia, assomiglia molto alla Palestina”, così è molto facile per me capire com’era prima. Rivedo gli ulivi, gli alberi da frutto, la terra rossa, rivedo tutta quella prosperità che l’autrice descrive nelle prime pagine del romanzo, fino ai terribili giorni dell’occupazione degli israeliani. Attraverso la storia di Amal, la protagonista di “Ogni mattina a Jenin”, e degli altri membri della sua famiglia, il romanzo racconta una storia lunga 60 anni: la storia di un popolo che vive in un territorio da sempre, e quella di un altro popolo che rivendica dei diritti di sovranità: “Pensavamo che fossero solo in cerca di un rifugio, dei poveracci che volevano solo vivere, invece hanno ammassato armi per cacciarci dalle nostre case”. È il 1948, gli inglesi lasciano la Palestina e i profughi ebrei che vi erano entrati a frotte si autoproclamano stato ebraico, cambiando il nome del paese da Palestina a Israele. Così, campo dopo campo, casa dopo casa, albero estirpato dopo albero, i confini della Palestina si stringono, fino a diventare una piccola striscia, e la gente si ritrova a vivere ammassata in campi profughi o in territori che cancellano ogni libertà e diritto.

“Fu così che, otto secoli dopo la sua fondazione ad opera di un generale dell’esercito del Saladino, nel 1189 d.C., a ‘Ain Hod non si videro più bambini palestinesi. Yehya cercò di calcolare il numero di generazioni che erano vissute e morte nel villaggio e arrivò a quaranta. Fu un compito facilitato dall’usanza araba di chiamare i propri figli in modo da renderne evidente la genealogia, mettendo cinque o sei nomi della progenie diretta del bambino nell’ordine esatto. Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato – con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo.”

Ogni cosa diventa controllata, ogni movimento, ogni scorta alimentare. Per spostarsi, i palestinesi devono attraversare check point. Periodicamente le bombe israeliane cadono sui territori occupati. Il mondo resta in silenzio di fronte al senso di colpa, portando alla luce “l’inesorabile verità che i palestinesi avevano pagato il prezzo dell’Olocausto ebreo”.

La vita di Amal diventa quella di un popolo che ogni giorno subisce intollerabili ingiustizie: Amal, nata profuga, è un bambina senza sogni, che tiene gli occhi ben aperti sulle “chiavi di ferro delle case rubate”, sugli orrori che i soldati compiono quotidianamente sulla popolazione indifesa, sulle tende del campo profughi di Jenin dove nonostante tutto, ogni mattina si ritorna a vivere. Perché a Jenin, nonostante i continui attacchi, si costruiscono tende con coperte lacere, si stendono a terra materassi e lì dormono uomini e donne e bambini, come topi, e lì lottano, ogni giorno, con le pietre.

Eppure c’è anche spazio per l’altro, per quel popolo che pure ha perso tutto ma che non ha colto il senso del male e la cui fragilità si mostra nel personaggio di Jolanda, una giovane vittima ebrea dell’Olocausto che non ha più nulla, non ha più nessuno, e che trova pace solo con un bambino tra le braccia, strappato alla sua mamma palestinese da neonato. L’amore per quel bambino che diventerà un soldato israeliano racconta il paradosso dell’amore cieco, ma è anche la denuncia chiara che i diritti di sangue hanno radici malate, ridicole e pericolose.

Il romanzo, che ha aperto gli occhi a milioni di lettori in tutto il mondo, è una denuncia ma è insieme un canto d’amore, perché ha mostrato l’orgoglio di un popolo che non si è mai arreso e che continua a morire in nome della giustizia e della libertà. Così i giovani protagonisti del romanzo, ammazzati perché trovati con tre olive e alcuni fichi in tasca, sono i ragazzi le cui immagini ci riempiono di rabbia e tristezza: sono i volti di Eyad El Hallaq, 30 anni, autistico, colpito con 7 proiettili e il cui assassino è libero come il vento, di Zaina Halawani e Wahbi Mikeh, giornalisti arrestati perché hanno scritto la verità, Zakariya Hamayel, 28 anni, ammazzato dall’esercito a Beita, Jana Al Kiswani, 15 anni, ferita con un proiettile alla schiena che le ha causato una frattura alla colonna vertebrale e gravi ematomi ai polmoni, i volti delle centinaia di bambine e bambini uccisi e di quelli sopravvissuti i cui sorrisi sotto le bombe rappresentano la resistenza, e l’amore, e la dignità immensa del popolo palestinese.

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