Olga Tokarczuk e I vagabondi: quella vita che è sempre sfuggita dalle mani

by Paola Manno

Nel discorso tenuto all’Accademia di Svezia durante la sua premiazione, il Nobel per la letteratura 2018, Olga Tokarczuk ha ricordato una fotografia ritraente sua madre prima della sua nascita. Sua madre, che le pareva pensierosa, triste. Quando le chiese la causa di quella malinconia, la madre le rispose che pensava proprio a lei, alla sua bambina che ancora non c’era, ma che se già le mancava, voleva dire che esisteva.

Questo breve scambio, in un luogo di campagna della Polonia occidentale alla fine degli anni Sessanta, uno scambio tra mia madre e me, la sua bambina, è sempre rimasto nella mia memoria e mi ha dato una riserva di forza che mi è durata tutta la vita. Perché ha elevato la mia esistenza oltre l’ordinaria materialità del mondo, oltre il caso, oltre la causa e l’effetto e le leggi della probabilità. Mia mamma ha posto la mia esistenza fuori dal tempo, nelle dolci vicinanze dell’eternità. Nella mia mente di bambina, capivo allora che per me c’era più di quanto avessi mai immaginato prima. E che anche se avessi detto «Io sono persa», avrei comunque iniziato a dirlo con le parole «Io sono», le parole più importanti e strane del mondo. E così una giovane donna che non è mai stata religiosa — mia madre — mi ha dato una cosa che una volta si chiamava anima, dotandomi così del più grande e sensibile strumento per narrare il mondo.

Il mondo narrato dalla Tokarczuk ne I vagabondi, vincitore dell’International Man Booker Prize 2018 e finalista al National Book Award, è quello di un’umanità in cammino. Il romanzo non ha una struttura narrativa lineare, è piuttosto un insieme di storie che si alternano, si interrompono, si incrociano, ritornano, si risolvono. Lei stessa scrive “La vita mi è sempre sfuggita dalle mani. Ho sempre e solo trovato delle tracce, i resti della sua muta”.

Grande viaggiatrice, laureata in psicologia, attentissima osservatrice delle vite degli altri, perché vedere è sapere (così si intitola un capitolo del romanzo), Olga Tokarczuk ha scritto pagine intensissime, di una potenza rara: quella dell’assoluta fede nella bellezza dell’umanità, nella ricchezza della diversità. Nel romanzo ogni personaggio brilla di una luce propria: la sorella di Chopin come quella dell’indiano che lavorava in una fabbrica senza assicurazione né ferie pagate e che le offriva tutti i giorni il suo curry piccante.

A volte queste vite si condensano in pochissime righe: quella donna è sicuramente svedese, loro non si tingono i capelli oppure Jasmine, un’affabile musulmana con un progetto: voleva incoraggiare tutte le persone del suo paese a scrivere un libro. Già, la letteratura come cura, come mezzo di tutti per poter fare bellezza, esistere: Che senso ha stampare fiori e fragole sulla confezioni degli assorbenti? La carta è stata creata per esser portatrice di idee (…) se c’è veramente qualcosa da confezionare bisogna farlo con racconti e poesie

Poi ci sono i luoghi, le strade, le Nazioni (il Belgio è dove tutte le strade sono illuminate, oppure l’Olanda, il paese dove la gente convinta della propria assoluta innocenza non usa le tende), ci sono gli aeroporti, pullulanti di attese e movimento e storie da raccontare.

Il lettore incontra persone e scopre luoghi ma resta sempre sulle spine, perché vuole infine sapere che fine ha fatto la bella signora che un giorno si è persa con il figlio su un’isola dopo un litigio con il marito paranoico, oppure se la sorella di Chopin riuscirà a riportare il cuore del fratello a Varsavia.

Ha il ritmo della vita, questo romanzo, pagina dopo pagina viviamo insieme a personaggi lontani nel tempo e nello spazio (splendida, ad esempio, la storia di Philip Verheyen, anatomista nato nel XVII secolo): alcuni ci accompagnano per un pezzo di strada, altri li perdiamo via per sempre.

La chiave di lettura, quella che io vi ho trovato, risiede nel legame tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che può essere tradotto attraverso l’immagine del mondo che per l’autrice è troppo grande (ci sono troppe cose al mondo, bisognerebbe rimpicciolirlo piuttosto che ampliarlo o espanderlo) in rapporto con il corpo del singolo uomo.

Il corpo, soprattutto il corpo morto, diventa una figura che attraversa numerose storie; anatomisti, medici, sovrani, sono molti i protagonisti che ne hanno a che fare: Verheyen che conserva in un barattolo la sua gamba amputata, il dottor Blau (se dipendesse dal dottor Blau, avrebbe costruito un mondo diverso: l’anima poteva essere mortale, in fondo cosa ce ne frega dell’anima, ma il corpo no, quello doveva restare immortale), la sorella di Chopin che nasconde il cuore del fratello sotto la gonna, Angelo Soliman, bambino schiavo che arrivò ad essere il cortigiano nero dell’imperatore d’Austria, nel XVIII secolo, il cui corpo imbalsamato poteva essere ammirato da tutti gli ospiti del re nella stanza delle meraviglie. Storia indimenticabile, quest’ultima, che permette una potentissima analisi politica tramite il personaggio della figlia Josephine Soliman, che ne reclama il corpo per una degna sepoltura. “È fuor di dubbio, Vostra Altezza, che il vero potere umano può riguardare soltanto il corpo umano – ed è proprio così che viene esercitato. Stabilire nazioni e confini impone al corpo umano di rimanere in uno spazio ben definito; l’esistenza di visti e passaporti controlla il naturale bisogno del corpo di muoversi e spostarsi. Il sovrano che stabilisce le tasse determina ciò che mangeranno i suoi sottoposti, su cosa dormiranno e se indosseranno abiti di lino o di seta. Voi, Signore, decidete anche quale corpo sarà più importante e quale meno. (…) Il bambino del palazzo sulla collina sarà allattato a sazietà, quello del villaggio nella valle berrà gli avanzi. E quando dichiarate guerra, spedite migliaia di corpi umani in un bagno di sangue. Avere il potere su un corpo significa essere re sia della vita sia della morte, ed è più che essere l’imperatore del più grande dei regni.

Il piccolo corpo che abita il grande mondo, che tuttavia è esso stesso mondo: Il corpo di quella suora si trasformerà in un granello di sabbia. La cosa tuttavia non dovrebbe dispiacermi, tenendo conto del numero di deserti e spiaggiò che ci sono nel mondo. Ma cosa succederebbe se fossero formati soltanto da essenze di corpi morti si esseri illuminati?

“Per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’andare al di là dei confini come forma di vita», questa è la motivazione del premio Nobel alla scrittrice polacca. La Tokarczuk è riuscita, a me pare, a riempire di significato le domande che l’uomo si è sempre posto, una su tutte: dove andiamo?

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