Miep Gies: il ricordo della donna che provò disperatamente a salvare Anna Frank

by Paola Manno

C’è una strada, lungo il canale di Prinsengracht, ad Amsterdam, dove ogni giorno la gente aspetta in fila per poter visitare una piccola stanza.

L’edificio appartiene alla Fondazione Anne Frank e la stanza è quella della giovane ragazza ebrea divenuta il simbolo della Shoah. Chi ha letto il diario di Anne conosce bene quegli spazi perché chi ha scritto ha raccontato nei dettagli il luogo, la fatica di viverci e le paure che hanno accompagnato per due anni le esistenze degli abitanti nascosti.

In quella stanza si accede tramite una piccola scala; la porta di ingresso, nascosta da una libreria girevole, protesse per mesi il nascondiglio. Molto è stato raccontato di quello che successe dietro quella porta, dietro a molte porte che nascosero ebrei nei paesi occupati dai nazisti, molto sappiamo di quello che successe dei campi, dietro ai cancelli di Auschwitz o Dachau, meno nota è invece la storia di coloro che aprivano quelle porte di notte per rifornire di cibo e conforto le persone che stavano proteggendo, sapendo bene di rischiare la propria vita aiutandoli. 

Entrare nella stanza di Anne ti fa gelare l’anima, ti mette di fronte alla certezza della presenza del male che ha vissuto nel cuore di milioni di uomini, la certezza storica di chi lo ha accettato, sostenuto, esaltato e da cui è nato l’orrore delle persecuzioni. Eppure anche  davanti alla porta di quella stanza ci sono storie che invece raccontano la piccola luce nel buio, quella che la Arendt chiamava coscienza.

Le mani di Miep Gies, dal 1942 al 1944, spinsero quella libreria girevole, consegnarono agli amici nascosti cibo e libri, furono quelle che, infine, raccolsero le pagine del diario di Anne quando l’appartamento segreto venne scoperto e messo a soqquadro dai nazisti.

Era il 4 agosto del 1944 e il piccolo diario con la copertina di stoffa a scacchi bianchi e rossi che la bambina aveva ricevuto il giorno del suo tredicesimo compleanno giaceva a terra accanto al letto. “Con il diario nelle mani pensai a quanto Anne fosse stata felice di ricevere quel librino in cui custodire i suoi pensieri più intimi (…) mi batteva forte il cuore al pensiero che l’austriaco tornasse e ci scoprisse in mezzo ai beni degli ebrei da poco requisiti. Sul punto di uscire dall’alloggio, passai per il bagno: la mia attenzione venne attratta dal morbido scialle beige a roselline che Anne usava per pettinarsi. Stesi una mano e lo afferrai con le dita. Non so ancora perché” scrive Miep Gies in “Si chiamava Anna Frank” pubblicato in Italia nel 2018 da UTET.

Miep arriva così carica che sembra un mulo. Quasi ogni giorno riesce a rimediare per noi delle verdure e ce le porta in bicicletta dentro grosse borse da spesa. Aspettiamo con ansia il sabato perché ci arrivano i libri. Proprio come i bambini che non vedono l’ora di ricevere un regalo” scriveva invece Anne, descrivendo la collaboratrice di suo padre Otto.

Nata in Austria da una famiglia poverissima, da bambina Miep era arrivata in Olanda in treno con un cartellino appeso al collo, grazie a un programma per l’aiuto ai bambini austriaci denutriti. La famiglia olandese di origine operaia che la ospitò, e che aveva già cinque bambini, la crebbe come figlia propria.

Miep iniziò a lavorare nella ditta di Otto Frank molto giovane e ben presto conobbe gli altri membri della famiglia, tra cui la piccola Anne, quando aveva appena 4 anni. La vide crescere, sviluppare la sana curiosità che la caratterizzava, il suo amore per la lettura e la scrittura. Non si tirò indietro quando Otto le annunciò che la sua famiglia sarebbe stata costretta a nascondersi in quell’appartamento segreto sull’ufficio in cui lei lavorava.

L’uomo aveva scritto lettere disperate ad amici e conoscenti in America per trovare il modo di far partire almeno le sue figlie, ma era stato costretto a quella estrema soluzione il giorno in cui Margot, la prima figlia, venne convocata dai nazisti per raggiungere un campo di lavoro. Aveva chiesto alla sua segretaria di aiutarla e lei, insieme ad altri collaboratori, aveva detto sì. Aveva detto sì ai rischi, al pericolo, al suo senso di giustizia, aveva detto sì alla vita.

Nelle pagine delle sue memorie c’è tutta la storia di un popolo che, famoso per la libertà che ne caratterizza la storia, subì un’occupazione durissima: gli olandesi patirono la fame, il freddo, i bombardamenti, le deportazioni, infinite umiliazioni quotidiane.  I partigiani, tra i quali vi era Jan Gies, marito di Miep, dovettero convivere, inoltre, con il timore di essere scoperti, di non poter più essere in grado di continuare ad aiutare i ricercati dai nazisti. 

Poi venne quel giorno in cui qualcuno tradì i Frank. Il racconto di quello che accadde è un pugno nello stomaco: “Lavoravamo seduti alla scrivania. A un certo punto alzai gli occhi e vidi un uomo vestito in abiti civili alla porta; non l’avevo sentito aprire. L’uomo aveva in mano un revolver, puntato verso di noi. Entrò. (…) Con il fiato sospeso tornai alla scrivania, dove l’uomo con la pistola mi aveva detto di rimanere. Ero sotto shock (…) Poi, lungo il corridoio, oltre l’ufficio del signor Kraler e il mio, sentii i passi dei nostri amici scendere la vecchia scala di legno. Capivo dal rumore dei passi che stavano scendendo come cani bastonati. Rimasi lì seduta, come paralizzata.”

Mi pare di sentirli quei passi. Sono i passi di tre ragazzini, due donne e tre uomini che non volevano morire. Sono uguali a quelli di tutti coloro che sanno che andranno incontro all’orrore.

Tra le immagini più sconvolgenti della Shoah vi sono quelle di montagne di scarpe di chi non è sopravvissuto. Come non pensare ai versi di Joyce Lussu “’c’è un paio di scarpette rosse/ a Buchenwald/ quasi nuove/ perché i piedini dei bambini morti/ non consumano le suole”.

Sono le stesse scarpe che raccogliamo sulle nostre spiagge, quelle dei migranti affogati in mare, sono i sandali di chi in questi giorni cammina sulla neve in Bosnia, sono le scarpe dei palestinesi rinchiusi dal muro di Gaza, sono le scarpe di chi voleva vivere e invece è morto, ammazzato dalle folli, criminali idee di razza, confine e delle porte chiuse. Se celebrare un giorno della memoria è necessario, lo è purché ricordi l’universalità (nel tempo e nello spazio) dei diritti umani.

Leggere la testimonianza di Miep Gies fa certamente sperare in un mondo migliore, senza mai dimenticare che oggi siamo noi gli uomini che POSSONO dire “si” oppure “no”.

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