«Siamo nati per amare». L’intervista a Luca Trapanese, il papà della piccola Alba

by Paola Manno

Mia nonna mi diceva sempre che la bellezza sta negli occhi di chi guarda. Da bambina capire cosa volesse dire quella frase era impossibile perché la bellezza la immaginavo in una forma, in un colore. Oggi che ne colgo profondamente il senso, quando mi capita di incontrare persone che esprimono lo stesso meraviglioso pensiero, penso sempre a lei, a nonna Giulia, la prima persona al mondo che mi ha insegnato cosa fosse l’amore.

Parlare con Luca Trapanese mi ha fatto pensare alla verità di questo pensiero: la bellezza è nello sguardo di chi guarda. Allora penso agli occhi di Luca, che non ho mai incrociato perché è al telefono che risponde alle mie domande, ma che posso ben immaginare. Penso a quello che riescono a vedere i suoi occhi poggiandosi su cose, persone, che per altri sono qualcosa di diverso, qualcosa che può fare paura. Così credo che probabilmente la bellezza della storia di Luca è tutta lì, in quello sguardo aperto e nuovo sul mondo, di cui il mondo ha un enorme bisogno.

Luca è un uomo che ha adottato una bambina. La bambina ha il nome di qualcosa di splendido che comincia, Alba, e ha la trisomia 21. Non sapremo mai se è stata la patologia a spaventare la madre naturale o le altre mille cose che possono far paura a un genitore, ma probabilmente è stato il motivo per il quale molte famiglie in attesa di adozione non se la sono sentita di prenderla con loro.

E invece Luca questa paura non solo non l’ha mai avuta, ma ha da subito saputo che era lui il padre che Alba stava aspettando.  

-Sono felice -mi dice, ed io lo sento il suo sorriso, dalla voce attraverso il telefonino- la mia vita è diventata molto più bella da quando c’è Alba, che è perfetta così com’è. Il fatto non è che io abbia accettato la disabilità, ma è che non la vedo proprio! Vedo le persone e il genitore è questo che deve fare. Con ciò non voglio dire che non considero la sua una disabilità. Ho sentito, a un certo punto, la vocazione forte di essere padre. Chi mi conosce sa che mi sono sentito padre di tanti bambini che in questi anni ho incontrato ne “La casa di Matteo”, la casa famiglia per bambini con gravi malformazioni presso la quale lavoro. Non lo so se c’è l’istinto, so però che non tutti sono nati per essere genitori. La società ti spinge verso certi ruoli, verso alcune scelte. È anche vero che negli ultimi anni il ruolo del padre è cambiato, oggi se ne riconosce un valore diverso. Io non me la sento di giudicare la madre di Alba, ma nemmeno le coppie che l’hanno rifiutata. Bisognerebbe domandarsi soprattutto perché è successo. Pensiamo alla solitudine delle coppie che hanno figli disabili. Non dobbiamo pensare ai colpevoli, dobbiamo pensare alle cause. C’è qualcosa di sbagliato in questa società.

Cosa vuol dire, per te, essere genitore?

Io so che non mi pesa essere genitore, so che non ho perso la libertà, so che sono felice, sereno.

Quando si parla di genitorialità il pensiero va subito alla perdita della libertà. Si ha un po’ paura a dirlo, ma è così. Per me genitorialità significa saper rinunciare, non mettersi più al primo posto. Significa lavorare affinché i propri figli siano felici, ascoltandoli, guidandoli. Oggi in virtù della libertà abbiamo perso un po’ la strada, ci pare sempre più difficile poter gestire tutto. Io provengo da una realtà tradizionale, i miei genitori stanno insieme da 53 anni, hanno dedicato la vita alla famiglia. I miei valori li ho appresi lì. Bisognerebbe poi ragionare proprio sul concetto di “famiglia”. Io ed Alba lo siamo. Un nucleo familiare esiste aldilà del fatto che sia composto solo da due persone. Ci sono dei criteri universali, giusti, lineari che possono determinarne l’esistenza. Nel mio percorso verso l’adozione, per esempio, nessun assistente sociale mi ha giudicato in base alla mia omosessualità. Hanno ritenuto che io, sebbene fossi single, sarei stato in grado di crescere un figlio. 

È proprio questo che racconti sulla sua pagina Facebook, seguita da oltre 200.000 persone. Perché  hai scelto di aprirla?

I social sono uno strumento divulgativo, ed educativo, straordinario. Ho voluto raccontare semplicemente cosa vuol dire essere una famiglia. La mia cammina sulla stessa strada di una famiglia composta da un padre, una madre e dei figli, anche se su sentieri diversi. A dire il vero non pensavo di diventare tanto “social”, ma all’improvviso mi sono ritrovato con migliaia di persone che mi hanno manifestato il loro affetto, che hanno avuto voglia di confrontarsi con me. La pagina serve anche a chi ha un figlio con un handicap e non sa come gestirlo. Ho creato una rete. Nella mia pagina io parlo di disabilità perché la cosa mi interessa, ma credo che in una società così moderna dovremmo essere capaci di andare oltre. La cosa più bella è che su questa pagina non sono mai stato attaccato, per esempio perché sono omosessuale. Sento l’amore e la stima delle persone. Allo stesso tempo non ho mai voluto essere strumentalizzato per nessuna causa, il mio unico intento è raccontare la normalità della mia vita. 

E forse è proprio questo il racconto di cui abbiamo bisogno, quello della banale regolarità dell’amore.

Spesso ho l’impressione che abbiamo perso la bussola. Siamo una società ostile, arrabbiata. Sai, è banale da dire ma io sono convinto che noi siamo nati per amare. Cosa c’è di più triste di una vita arida? Io davvero credo che l’amore possa salvare il mondo, quello vero, come può essere, ad esempio, quello di un padre verso suo figlio. 

Ti chiedo, infine, di raccontarmi un altro atto d’amore, la tua idea del libro “Vi stupiremo con difetti speciali” scritto da Patrizia Rinaldi con le illustrazioni di Francesca Assirelli (Giunti ed.)

Io sono convinto che si debba partire dai bambini, per questo abbiamo pensato a un libro di favole. Nel libro vengono raccontare le storie vere di tre bambini apparentemente diversi che con la loro disabilità riescono a trasformarsi in super eroi. È così: spesso siamo spaventati dai nostri difetti e non ci rendiamo conto che invece sono la nostra ricchezza. La storia di Alba è una “passeggiata”…insomma, io e Alba non siamo chiusi in una stanza, bloccati in un letto. La nostra è un vita che viviamo appieno. Akin è invece un bambino che non è stato accettato perché non aveva strumenti e ha avuto bisogno di un processo di rieducazione. Poi c’è la storia di Huang, un bambino che sin dalla nascita ha avuto bisogno di assistenza continua. La gente si chiede: che vita può avere un bambino senza speranza, un bambino nato senza cervello? Eppure, in questa condizione di passaggio, quel bambino ha messo in circolo tanto amore. 

Già, l’amore che circola e si alimenta d’altro amore. Quanto ne ha messo in circolo quest’uomo? La sua storia non ha commosso solo l’Italia, ma ha emozionato tantissime persone in tutto il mondo. Molti giornali esteri hanno riportato la sua storia e ancora oggi, a distanza di 3 anni, si continua a parlare di Luca Trapanese che, in fin dei conti, ha solo seguito il suo cuore. 

Così penso che parlare d’amore, parlarne senza retorica né sentimentalismi, senza paura di parole orrende come “buonismo”, parlarne come si fa di tutte le forze che governano il mondo, sia sempre importante. Di più, diventa necessario anche, soprattutto, quando si parla di diritti (degli adulti e dei bambini), di politica, di tutte quelle decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata di ogni cittadino. Perché i grandi cambiamenti sono fatti di piccoli, nuovi sguardi, di storie in grado di cambiare, una persona alla volta, la percezione della bellezza e della felicità. 

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