“The present” di Farah Napulsi: l’odissea del dono nella Palestina di Yusef e Yasmine

by Paola Manno

Un uomo e una bambina camminano su una strada polverosa. La bambina ha un cappottino rosso, i capelli scompigliati. L’uomo è visibilmente stanco. Hanno appena attraversato un check point, dopo esser stati controllati, sono stati costretti ad aspettare delle ore, chiusi dentro ad una gabbia. Finalmente si riposano sui sedili di un autobus. Sono padre e figlia e sono diretti in città perché è il compleanno della mamma e vogliono comprarle un regalo. Su quell’autobus l’uomo si accorge dei pantaloni bagnati della bambina. Quelle macchie raccontano una paura che non si può dire con altre immagini. Raccontano un dolore pieno di umiliazione, un dolore bambino che non si può trattenere.

L’uomo e la bambina sono Yusef e Yasmine, palestinesi. Il cortometraggio si intitola “The present”, che vuol dire “regalo”, ma che significa anche “presente”, e cioè una quotidianità che è sempre, inaccettabilmente, la stessa. Con questo film la regista anglo-palestinese Farah Napulsi ad aprile ha ricevuto la nomination per un premio Oscar, vincendo, subito dopo, il premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (Bafta).

Tra i festival più importanti, “The present” ha vinto il premio del pubblico al Clermont-Ferrand ed è stato presentato a decine di festival in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone. Il film, visibile su Netflix, dura 24 minuti ed è una piccola storia semplice. Sarebbe un film molto diverso se fosse ambientato in un altro luogo del mondo, ma in Palestina anche una cosa così banale come una passeggiata per comprare un dono, una coroncina da principessa e qualcosa per la cena diventa un’odissea che ci spalanca gli occhi. Dopo l’estenuante attesa al check point, Yusef e Yasmine devono affrontare l’ennesimo mortificante controllo, sono costretti a cambiare strada e subire nuovamente le umiliazioni dei soldati israeliani, fino al pericoloso, quanto atteso sfogo di un uomo schiacciato, che urla finalmente il suo dolore dopo tanto silenzio. Eppure quella bambina che trascina il suo peso quotidiano a testa alta, con orgoglio, è un finale bellissimo, nonostante la tragica verità. Un finale che ti fa respirare, perché fino a quel momento resti con il fiato sospeso temendo il peggio, perché sai benissimo che in quella terra la gente muore ammazzata per uno sguardo, per il minimo gesto di sfida. Perché quelle prigioni sono vere, quegli schiaffi, quegli insulti, quei bambini umiliati, ritratti da foto coi pantaloni bagnati in mezzo a soldati con i fucili in mano sono veri! Perché ogni giorno migliaia di studenti devono alzarsi alle 3 di notte per attraversare pochi km per raggiungere la scuola, check point dopo check point, così come tutti coloro che si spostano quotidianamente per ogni minima incombenza quotidiana.

Già, fosse ambientata in un altro posto del mondo, questa piccola storia non avrebbe avuto alcun interesse, ma la Palestina è un paese dove accadono cose inaccettabili che, come ha affermato più volte la regista, devono essere raccontate senza veli. E senza paura, ma soprattutto senza la pericolosa rassegnazione dell’inutilità della denuncia. Guardate “The present” con la speranza di non dover mai più vedere tali orrori narrati con sublime poesia e mostratelo a chi conosce poco la storia di una delle più gravi ingiustizie del nostro secolo. Anche i piccoli film fanno crescere le coscienze. Senza questa convinzione, girare un cortometraggio difficile e bellissimo come questo sarebbe stato, certamente, inutile.

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