Rita Levi-Montalcini nel ricordo della nipote Piera

by Marilea Poppa

Due donne, Rita e Piera Levi-Montalcini, zia e nipote legate da un profondo affetto e dall’impegno che insieme hanno portato avanti grazie all’Associazione che porta il nome della scienziata italiana Premio Nobel per la medicina.

Bonculture ha intervistato Piera Levi-Montalcini per ripercorrere la storia di una famiglia, il ricordo di “Zia Rita” e l’attenzione alla formazione giovanile.

Partirei da una frase che sua zia era solita dire: “Quando muore il corpo sopravvive ciò che hai fatto, il messaggio che hai mandato.” Qual è, secondo lei, l’insegnamento più importante che Rita Levi-Montalcini ha lasciato e che oggi possiamo considerare ancora vivo e sentito?

Penso che sia soprattutto quello della serietà e del rigore. I valori sono quelli che contano e questi non solo vanno rispettati ma fatti rispettare. La cosa più importante che resta di te è il lavoro che hai fatto. Zia Rita di lavoro ne ha fatto in tutti i settori con impegno e dedizione e quello rimarrà sempre come la memoria della sua vita, che ha visto anche momenti di esposizione molto alta. L’ambito nel quale tu lasci qualcosa,  grande o piccolo che sia, non ha rilevanza; che sia un microcosmo o un macrocosmo dell’intero mondo non conta, l’essenziale è che ciascuno lasci qualcosa e che i valori in qualche modo vengano tramandati come si tramanda la cultura di una famiglia, di un popolo, di un’entità. E’ importante lasciare un segno, non necessariamente di fama pubblica, ma soprattutto di natura morale.

Il legame che vi univa era molto forte. Lei ha avuto modo di stare al fianco di sua zia per tanti anni e di assistere ai suoi successi personali e professionali. Dopo la sua scomparsa è stata definita come sua  erede spirituale. Quali sensazioni le ha suscitato l’essere stata testimone e successivamente portavoce dei suoi insegnamenti?

In verità sono tre gli insegnamenti che porto: quello di mio padre Gino, di zia Paola e di zia Rita, tre personaggi che hanno scritto un pezzo di storia italiana e segnato il loro tempo. Zia Paola era una pittrice, mio padre un architetto e scultore, disegnava da Dio. Mi sento una persona in dovere di far conoscere bene e fino in fondo quali persone erano tutti e tre. Una volta un bambino mi ha chiesto se fossi invidiosa di quello che era stata mia zia, ho risposto che mi sento una persona totalmente diversa. A me piace pensare che noi esseri umani siamo come dei robot perfetti, ognuno cablato in maniera diversa. Il mio cablaggio è diverso dal loro, per questo motivo non sarei in grado di competere con loro per doti o bravure, ma invece posso e devo, perché lo sento, far conoscere quello che hanno fatto. Tanti lo interpretano come un gesto di snobismo, mi rende indubbiamente orgogliosa appartenere alla mia famiglia ma non lo faccio per quello, reputo che sia un dovere morale nei loro confronti. La vena artistica era molto spiccata nella nostra famiglia e da loro probabilmente ho ereditato il desiderio di costruire, o meglio, di avvitare e svitare (ride). La mia idea di “progettare e creare” è sempre stata finalizzata a qualcosa di ben preciso, e questo fa parte della formazione ingegneristica che ho ricevuto, ossia quella di non essere capace di inventare qualcosa in spazi o visioni libere, ma in spazi limitati e con una funzione, uno scopo. Trovo quindi che ognuno abbia le proprie peculiarità; per fortuna il lavoro che ho fatto mi ha divertito molto.

Alla testimonianza che lei custodisce e tramanda si affianca la storia dell’Associazione Rita Levi-Montalcini di cui lei è Presidente. Una realtà che dal 2002 si occupa della formazione dei giovani, ai quali la scienziata ha sempre rivolto la propria attenzione. Ricordiamo, tra gli obiettivi, i progetti volti a fornire assistenza ai giovani studenti e finalizzati al sostegno della ricerca. Dottoressa, ci racconta brevemente com’è nata l’Associazione?

L’Associazione inizialmente era la Fondazione Levi-Montalcini, che aveva zia Rita come Presidente e me come Vice Presidente. Il target che avevamo assunto era indirizzato alle Scuole italiane ed al progetto di ricerca che avevo inserito io. Avevo delle mire molto specifiche in merito all’ambito della ricerca, che conservo ancora oggi e che sto perseguendo. Non ho smesso di occuparmi di trovare dei fondi per i ricercatori e vorrei che le idee che zia Rita mi ha comunicato, che ho fatto mie nel tempo e di cui ho colto le potenzialità, si vedessero realizzate o meno a seconda della possibilità. Successivamente la zia preferì cambiare qualcosa: la parte di ricerca confluì nell’Associazione separatamente dalla Fondazione. L’anno scorso la Fondazione è stata chiusa e adesso sto aspettando di ereditarne i contenuti. Quando ne sarò in grado amplierò l’Associazione, di cui oggi sono Presidente, al settore “donne africane” e “alfabetizzazione” affinché  i due cuori, la Fondazione e l’Associazione, possano ricongiungersi.

In che modo ha contribuito alla realizzazione delle idee che sua zia aveva scelto di condividere con lei?

Ho rivisitato le idee di zia Rita in maniera personale. Lei aveva cominciato un lavoro in collaborazione con la professoressa Sparoli, che puntava molto sull’orientamento degli studenti al termine delle scuole medie per scegliere il percorso di studio adeguato. Il progetto è nato sotto l’impulso che questi ragazzi avessero bisogno di un aiuto ed è andato avanti anche perché questo è un settore molto interessante come lo è capire, man mano che si cresce, che l’epoca più importante per la formazione del bambino è collocata tra il primo e il decimo anno di vita. Mio padre diceva che per insegnare alle elementari c’era bisogno di docenti universitari con una preparazione perfetta, in modo tale che gli studenti potessero ricevere delle conoscenze certe e potessero sentirsi stimolati al massimo. Partendo da questa forma mentis, da un’impostazione familiare nel concepire l’educazione, la cultura e l’evoluzione dell’essere umano, per me è stato molto semplice innestarmi su quelle tematiche, che erano assolutamente normali nella mia famiglia. Provenendo da un settore imprenditoriale e in particolare da un’azienda mia, ho sempre ritenuto che nel No Profit fosse necessario lavorare anche con una mentalità di stampo imprenditoriale. Il sentimentale non può andare avanti da solo. Puoi avere belle idee, ma servono fondi per far sì che possano essere realizzate.

Molti ricercatori italiani sono costretti ad abbandonare l’Italia per conseguire prospettive lavorative migliori. Cosa pensa della possibilità di costruire una carriera all’estero?

Il fatto che ci sia uno spostamento della popolazione, in generale, non è mai negativo: nell’immediato può sembrare tragico, possono nascere dei problemi culturali, ma la mescolanza tra culture è positiva. Può sembrare difficile, ma a livello personale si cresce, si imparano cose nuove e si torna con un bagaglio culturale arricchito e con una visione diversa della vita. Trovo che in Italia, per i giovani, stia diventando un po’ pesante il fatto che manchi una preparazione all’imprenditorialità che bisogna insegnare ai ragazzi, sin da subito, per abituarli al rischio senza avere troppa paura. A volte tendiamo a creare finte corazze di sicurezza che sono fonte di un’insicurezza infinita, che ci paralizza completamente. Invece di comunicare la paura dovremmo imparare a comunicare come difendersi dalla paura stessa.

Lei incontra e si confronta frequentemente con migliaia di studenti nelle Scuole Italiane. Quale messaggio vorrebbe mandare ai giovani?

Ai giovani dico di avere il coraggio di rompere le barriere. Non dovrebbe esistere nemmeno un antagonismo tra generazioni: le generazioni servono sempre a insegnare qualcosa. Essere giovane significa, da un punto di vista strutturale e societario, avere l’abilità e la prontezza di  fotografare l’esigenza del momento e segnare il passo per capire dove e come poter cambiare in meglio le cose, cercando di seguire la strada che chi ti ha preceduto ha tracciato.

Posso chiederle di raccontarci un aneddoto relativo al ricordo di sua zia?

Ricordo che una delle cose più divertenti con zia Rita era che quando si andava in giro per le strade accadeva spesso che la gente la salutasse. Lei ricambiava con gentilezza, poi mi guardava e mi diceva: “Ma come fa a conoscermi? Sono così famosa?” ed io le rispondevo: “Zia, sei su tutti i giornali!”. Aveva un’autoironia tipicamente ebraica.

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