Scrivere è un posto dove andare, Lucia Berlin

by Paola Manno

Penso spesso a Lucia Berlin. Penso al modo speciale in cui racconta piccoli momenti di vita:  “E’ una giornata fredda e tersa di gennaio. All’angolo della Ventinovesima compaiono quattro ciclisti con le basette, come un filo di aquilone. Una Harley in folle alla fermata dell’autobus; dal pianale di un pick-up Dodge del ’50 i ragazzini salutano con la mano il motociclista. E finalmente piango”, brevi episodi legati a improbabili domande “Preparai la pastella per i pancake, diedi da mangiare ai cani, ai gatti e a Rosie la capra. Avevamo un cavallo all’epoca? Se si, dimenticai di dargli da mangiare”.

Penso a questa donna, nata nel 1936 in Alaska, alla sua esistenza difficile, con un passato da alcolista, tre matrimoni falliti alle spalle, quattro figli. Lucia ha lavorato come infermiera, segretaria, come donna delle pulizie e nonostante le difficoltà economiche ha letto tanto, ma soprattutto è riuscita a scrivere racconti indimenticabili.

Penso spesso alle mani di Lucia Berlin sporche di varichina e inchiostro, penso che sono le mani di molte donne che conosco, che incontro nei bar a servire un caffè in questi anni bui e ingiusti, negli ospedali o ai giardinetti, a quelle mani che forse scrivono, o forse avrebbero solo voglia di farlo, parole che dicono il dolore, il riscatto, la bellezza di certi istanti.

Lucia Berlin scrive cose che sappiamo, ma con parole nuove “Dopo la morte dei tuoi genitori, ti ritrovi faccia a faccia con la tua. Ah, quant’è vero…non c’è più nessuno a proteggerti dalla morte”, cose che non dobbiamo dimenticare “I poveri sono abituati ad aspettare. Fila per il sussidio, all’ufficio di collocamento, nelle lavanderie a gettoni, davanti alle cabine telefoniche, al pronto soccorso, in prigione e via dicendo…”, scrive parole che molte madri, di certo, hanno sentito dentro come un morso  “Vidi uno sguardo di sofferenza negli occhi di Mark, lo stesso che avrei visto poi negli occhi di tutti i miei figli nel corso della loro esistenza. Una ferita in seguito a un incidente, un divorzio, un fallimento. La ferocia del mio desiderio di proteggerli. La mia impotenza”.

Penso a Lucia Berlin e alle sue brevi, brillanti descrizioni “ A vederla sembrava una normalissima signora ebrea di mezza età, graziosa, ma c’era qualcosa in lei di libero e scatenato” e ancora “Era minuto come un bambino, ma forte, muscoloso. Reggevo un uomo in braccio. Un uomo dei sogni. Un bambino dei sogni”.

Quando penso a lei penso all’America che non è un grande sogno ma una grande illusione che la Berlin racconta attraverso la voce di donne sole, di ubriacati di nostalgia, di disadattati. Lo fa con parole semplici ma immagini potenti, come solo chi ha vissuto insieme agli ultimi, come gli ultimi, riesce a fare. Penso a tutte le donne che hanno trovato il tempo di scrivere e a quelle che non scriveranno mai, a tutte le parole che non vedranno la luce ma soprattutto a quelle che invece sono state scritte, nonostante tutto, durante una pausa dal lavoro, al capezzale di un malato, accanto ai figli addormentati.

Penso alla raccolta dei suoi racconti “A manual for cleaning woman”, titolo che gli italiani hanno edulcorato  in “La donna che scrive racconti” , quando invece la questione è proprio questa qui: restiamo quasi tutte cleaning woman, anche quando diventiamo professoresse universitarie o scrittrici affermate.

Lucia Berlin  ha detto, in un’intervista rilasciata nel 1996 a Kellie Paluck e Adrian Zupp, due sue specializzandi dell’University of Colorado, dove ha insegnato scrittura negli ultimi anni della sua vita: “Scrivere è un posto dove andare”. Ecco, io penso che per raggiungere quel posto, non bisogna, innanzitutto, stancarsi di andare.

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