Sidonie-Gabrielle Colette: l’eros, la seduzione e la fame di libertà della Belle Epoque

by Michela Conoscitore

Mi chiamo Gabrielle, abito a Saint-Sauveur-en-Puisaye; sono nata nel 1873; probabilmente non ci morirò”: in realtà, doveva essere questo l’incipit di uno dei suoi romanzi più famosi, Claudine a scuola, scritto in cattività, costretta dal marito-mentore Henri Gauthier-Villars.

Sidonie-Gabrielle Colette, in quel suo primo romanzo, pubblicato sotto pseudonimo dal marito che si firmava Willy e possedeva un piccolo esercito di scrittori che redigevano per lui dai romanzi agli articoli giornalistici, descrisse la sua vita in quel piccolo paese della Borgogna. Da poco a Parigi, la giovane Colette, innamorata del marito e molto ingenua, si sentiva ancora immersa nel verde della sua Saint-Sauveur, dove nei boschi sapeva distinguere un albero dall’altro, fiera di questa abilità, quando andava a cogliere more per la madre Sido.

Colette crebbe qui, in questo paradiso di provincia, ma ciò non sta a significare che visse fuori dal mondo. Forse, proprio perché lontana dalla grande città che la giovane potette affinare le sue arti e la sua intelligenza: saccheggiò la biblioteca di famiglia, divenendo in tenera età una fan appassionata di Honorè de Balzac, e alimentò la sua monelleria, anche grazie all’amore sconfinato che la madre nutriva per lei. Sido fu per la figlia un esempio da seguire, una donna che con un marito invalido di guerra, portò avanti la famiglia con acume e intelligenza, in un’epoca decisamente soffocante per il ‘sesso debole’.

Quando a sedici anni conobbe Henri Gauthiers-Villars, maturo dongiovanni parigino, e lo sposò poco dopo, Colette fu spiazzata da quello che, in realtà, era l’amore e il matrimonio. D’altronde, lo comprese anni dopo, quando scrisse: “Un’infanzia felice è una scarsa preparazione per i contatti umani”. Il quadro idilliaco che i genitori le avevano esposto fino a quel momento, acquistò in seguito delle tinte più cupe e affilate, e che ebbero come sfondo non la ridente Saint-Sauveur ma la spregiudicata Parigi della Belle Époque. Gabri arrivò nella grande città completamente disarmata, inesperta e troppo idealista: il marito la introdusse nei più importanti salotti mondani, la portò al Moulin Rouge, al Trocadero e al Cafè de Flor. Inoltre la abituò ai suoi continui, innumerevoli tradimenti.

Colette era innamorata. Per Henri vinse numerose sfide con se stessa, accettando quel mondo che del verde della sua Saint-Sauveur aveva solo il colore dell’assenzio, ma soprattutto per lui iniziò a scrivere, e questa fu l’unica delle violenze per cui, probabilmente, Colette gli fu riconoscente. Willy, il nom de plume che il marito si era scelto per il suo lavoro da imprenditore letterario, era solito rinchiuderla in una stanza a scrivere, fin quando non avesse prodotto buon materiale per i suoi traffici editoriali. “Quando si può penetrare nel mondo incantato dei libri, che bisogno c’è di scrivere? Sono l’unica della specie, l’unica creatura venuta al mondo allo scopo di non scrivere”, scrisse di sé. Eppure quanto si sbagliava, perché la saga che ideò col marito sulla vita di una spigliata ragazza di campagna, Claudine, riscosse così tanto successo in Francia che divenne un vero e proprio fenomeno mediatico, tanto da produrre anche merchandising legato al personaggio di finzione creato da Colette, e una moda che si diffuse tra le ragazze parigine dei primi del Novecento. Un giorno, si svegliarono sentendosi tutte Claudine.

Colette è passata alla storia come scrittrice erotica, ma lei fu molto di più, innanzitutto fu una donna che pretese la sua libertà, la propria indipendenza economica, che impose ad Henri di apporre anche il suo nome sulle copertine dei libri che li avevano resi tra le coppie più ricche e famose di Parigi. Gabrielle fu anche giornalista, attrice, imprenditrice nel campo della cosmesi. E poi amò, adorava sentirsi innamorata, l’appassionava sperimentare, non si negò alcuna esperienza sessuale, tanto da contare numerose amanti a cui fu molto legata, come Mathilde De Morny, detta Missy, con cui portò in teatro una rappresentazione che fece scandalo in quegli anni, e che si concludeva con un loro bacio appassionato. La scrittrice entrò spesso in competizione col marito, le amanti di Henri diventavano le sue amanti, e quei menage a trois divennero leggendari, e anche molto invidiati. Colette, quindi, abbandonò la sua innocenza campagnola scoprendosi affamata di esperienze, e non ponendo limiti ad esse.

Dopo il divorzio dal marito, Gabrielle iniziò davvero a vivere: divenuta la regina dei salotti parigini, dapprima si dedicò alla carriera di attrice, e un’opera in cui raccontò i suoi anni in giro per la Francia in tournee fu La Vagabonda, che segnò il suo ritorno in libreria senza avere affianco l’ingombrante presenza di Henri. Durante una delle tournee conobbe Henry de Jouvenel, giornalista e futuro politico. Se il matrimonio con Henry fu breve, anche se ne nacque, per sbaglio, la figlia Colette, la scrittrice non seppe resistere ad un altro amore, quello per il figlio di Henry, il giovane Bertrand.

Nei suoi romanzi, Colette ha raccontato sé stessa, quasi la scrittura per lei avesse potere terapeutico. Nel suo più famoso, invece, raccontò di lei ma soprattutto di Bertrand, il romanzo è Chéri:

“Chéri non rispose, preso dall’idea del suo imminente piacere e dal desiderio immenso di possederla. Léa si sottomise e fu con il giovane amante un’amabile amatrice, attenta e seria. Aspettava, tuttavia, con una specie di terrore, il momento della sua disfatta, sopportava Chéri come un supplizio, lo respingeva con le mani senza forza, e lo tratteneva tra le sue ginocchia potenti. Finalmente, gli afferrò un braccio, un debole grido e naufragò in quell’abisso dove l’amore riemerge pallido, taciturno e con la nostalgia della morte.”

Léa e Chéri sono l’ennesimo scandalo a cui dà vita Colette, anche se inevitabilmente il suo stile di scrittura ammalia sempre, e comunque la scrittrice raccontava la realtà, dava un nome alle innumerevoli tipologie di relazioni che spaventavano solo perché erano messe a tacere, o disconosciute dal bel mondo. L’amore non ha età, sesso o senso etico: è quello che è, bisognava solo accettarlo, o almeno farlo comprendere ai benpensanti. Però, per Colette la fedeltà nelle relazioni era apprezzabile: “La fedeltà non è indispensabile, ma è meglio. Alla fine si scopre che la fedeltà è, nelle sue peripezie e nei suoi risultati, qualcosa di più comodo, di più…direi, bassamente pratico, che l’infedeltà”. Ma fu sempre tradita.

La relazione con Bertand terminò dopo cinque anni insieme, quando lui, spinto dalla famiglia, sposò una ragazza della sua età. Colette proseguì a scrivere romanzi come Il grano e l’erba, la cui pubblicazione a puntate fu interrotta perché dichiarato scandaloso, e pubblicò anche il seguito di Chèri. Seguirono La nascita del giorno, Sido, dedicato alla madre, Il puro e l’impuro e Camera d’albergo. Ultimo suo successo fu Gigi, che come altre sue opere fu trasposto in rappresentazione teatrale e la cui protagonista fu scelta da Colette stessa, quando nel 1951, a Montecarlo, intravide una giovane promettente, molto graziosa: Audrey Hepburn. Quello fu il primo ruolo importante per l’attrice.

Tormentata, nel corso della vecchiaia, da una forma acuta di artrite alle anche, la sua insaziabile curiosità e dinamicità furono ingabbiate, come quando Henri la rinchiudeva in casa a scrivere: la malattia l’aveva privata di molte emozioni, invidiò le donne che, al termine della Seconda Guerra Mondiale, festeggiarono dandosi ai piaceri della carne, e fu orgogliosa della figlia partigiana. Colette morì il 3 agosto del 1954; aveva iniziato a tenere un diario poco prima della sua scomparsa, sul quale, quasi ottantenne, scrisse:

Quello che mi piacerebbe davvero:

  1. ricominciare
  2. ricominciare
  3. ricominciare.”

*Documentazione: Sandra Petrignani, La scrittrice abita qui (Neri Pozza Editore)

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