Alma Rosè, “una violinista a Auschwitz”, che regalò speranza nel campo di sterminio con l’Orchestra femminile

by Michela Conoscitore

Ad Auschwitz c’era la musica.

Le baracche, le distese di filo spinato, perfino il tristemente noto motto all’entrata del campo di concentramento nazista, “Arbeit macht frei”, ogni giorno venivano accarezzati da note musicali. Sembra impensabile che in un luogo di sofferenze e dolore ci fosse spazio per un qualcosa che questi sentimenti, un minimo, li alleviava. Non si trattava di musica clandestina, perché quelle note risuonavano per espresso desiderio degli stessi intendenti del campo, dalle SS ai medici dell’infermeria.

La Mädchenorchester von Auschwitz, l’Orchestra delle Donne di Auschwitz, fu un’idea del capo femminile delle SS, la celebre Maria Mandel, austriaca che fu processata e condannata a morte a Cracovia nel 1947 per essere stata direttamente coinvolta nella morte di 500 mila deportati dei campi di Auschwitz e Birkenau. Mandel pensò di dotare il campo di un’orchestra per fornire un sottofondo musicale agli impegni dei propri abitanti: dall’accoglienza dei convogli e treni stipati di gente allo stremo, alle selezioni per le camere a gas e impiccagioni, l’Orchestra era lì a suonare anche per ore, e con qualsiasi condizione atmosferica. Una prigioniera di Auschwitz, Lucia Adelsberger, in seguito ha riportato che le prigioniere al ritorno da una giornata di duro lavoro, per volere di Mandel, dovevano tornare nelle baracche marciando a tempo di musica.

In attività dal 1943 al 1944, l’Orchestra femminile partì con una ventina di elementi per arrivare a contare più di quaranta musiciste. La loro provenienza geografica era varia, così come la preparazione musicale. Dilettanti, autodidatte e professioniste di grande spessore si ritrovarono insieme a suonare per i prigionieri e i propri aguzzini. Inoltre, non era inusuale che il perverso dottor Josef Mengele richiedesse l’esecuzione di brani da lui amati, o che Josef Kramer, la bestia di Bergen Belsen, arrivasse ad Auschwitz per poter ascoltare l’Orchestra. Fu quello il momento, infatti, in cui la ‘squadra’ sinfonica delle prigioniere affascinò maggiormente i nazisti perché a guidarla c’era una professionista che, nonostante il proprio talento e parentele illustri, non riuscì a sfuggire alla deportazione.

Lei era Alma Rosè, violinista molto apprezzata allora in tutta Europa. Alma era figlia, e nipote, d’arte: suo padre era Arnold, primo violino dell’Opera di Vienna. Discendeva dai Rosenblum della Romania, ma quando lui e i suoi fratelli si trasferirono in Austria, decisero di troncare il proprio cognome non rinnegando, tuttavia, la loro ebraicità di cui andavano molto fieri. In Austria, oltre a stabilizzarsi e prosperare, i fratelli Rosè conobbero e sposarono le sorelle del grande compositore Gustav Mahler. Arnold sposò Justine Mahler, e il 3 novembre del 1906 a Vienna nacque Alma, chiamata così in onore della zia.

Alma ebbe una carriera di grande successo anche grazie all’orchestra da lei fondata, la Die Wiener Walzermädeln, Le ragazze del valzer di Vienna, che intraprese tournée in tutta Europa. Nel 1930 si sposò col violinista ceco Váša Příhoda, da cui divorziò cinque anni dopo. Alma non sapeva che la vita libera e piena che aveva condotto fino ad allora stava per terminare. Le Leggi Razziali approvate nel settembre del 1935 iniziarono a creare non pochi problemi agli ebrei tedeschi, e con l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938 il pericolo divenne evidente anche per Alma, la sua famiglia e tanti altri ebrei austriaci. La giovane diede inizio alla sua fuga in Europa, quando si divise dal padre, diretto a Londra, provando dapprima a rifugiarsi a Parigi, che ben presto fu raggiunta dalle truppe di Adolf Hitler, e poi in Olanda, allora ancora una nazione libera. Sposò anche un ragazzo olandese, per darsi un’identità più sicura e proteggersi ma non servì a nulla. Quando Alma comprese che i tedeschi erano sulle sue tracce, tentò un’ultima, disperata, fuga verso la neutrale Svizzera, senza riuscire a raggiungerla. La musicista fu intercettata al confine e deportata nel campo di concentramento di Drancy dove rimase fino al luglio del 1943, quando fu trasferita a Birkenau, campo gemello di Auschwitz nel quale in seguito verrà definitivamente inviata.

Alma vi giunse in uno stato fortemente debilitato, e rimase momentaneamente in quarantena. La violinista riuscì a riprendersi, e fu così che iniziò la sua avventura con l’Orchestra femminile del campo. Maria Mandel, infatti, venne a sapere che era da poco arrivata la nipote di Mahler, violinista, e non poteva farsi sfuggire una prigioniera così speciale. Con Alma direttrice dell’Orchestra, avrebbe ottenuto maggior considerazione da parte dei superiori, e reso più piacevole il lavoro di tutti in quel posto. Alma riorganizzò le colleghe musiciste, ampliando il repertorio e arricchendolo di musica classica, praticamente assente prima del suo arrivo. Frequentemente, la violinista era richiesta dai comandanti del campo per assoli privati, al termine dei quali tutti erano estasiati dal suo talento.

A Birkenau mi trovai di fronte ad Alma Rosé. Il suo viso era tranquillo e serio. La canizie le aveva intessuto i capelli neri che stavano ricrescendo. Senza dire una parola sistemò sul leggio uno spartito e mi mise in mano un violino. La musica che eseguivamo conteneva in sé un qualcosa di infernale. Cominciammo a rendercene conto fin da subito, vivevamo quindi dei dilemmi di natura morale, delle incertezze in fondo all’anima: dovevamo suonare o no?

Helena Dunicz Niwińska, Una violinista a Birkenau

La SS Maria Mandel instaurò un rapporto ‘speciale’ con Alma, forse affascinata dalle sue capacità di musicista: non era raro trovarle immerse in fitte conversazioni, privilegio impensabile concesso soltanto a lei. Mandel, tuttavia, conduceva con Alma un gioco perverso, basato su un equilibrio precario, in attesa di un errore di Alma. Un giorno, l’aneddoto fu riportato da alcuni sopravvissuti, Mandel corse fuori dal suo ufficio e raggiunse la baracca in cui si esercitava l’Orchestra, chiedendo loro di riprodurre un brano che poco prima aveva ascoltato alla radio. Le musiciste, guidate da Alma, non l’avevano mai suonato prima ma sapendo che c’era in gioco la loro vita si impegnarono a riprodurlo. Al termine dell’esecuzione, Maria Mandel si complimentò con Alma e l’Orchestra, l’avevano reso ancora più bello.

Difatti, per le deportate dell’Orchestra femminile partecipare a quell’esperimento artistico in un luogo di morte significava allungare la propria aspettativa di vita, scongiurare almeno per un po’ l’inevitabile ‘doccia’ in quei locali da cui non usciva più nessuno: “Se non suonavamo bene, ci aspettavano le camere a gas”, ha raccontato Anita Lasker Wallfisch, una delle due musiciste sopravvissute dell’Orchestra, “farne parte era come una fuga, in un certo senso, nell’eccellenza”.

Alma Rosè morì improvvisamente il 5 aprile del 1944. Probabilmente avvelenata, a causa di una grave intossicazione alimentare dovuta al botulismo. Con la propria direzione e guida, Alma assicurò alle sue amiche dell’Orchestra mesi di sopravvivenza. Concesse loro di sperare.

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