Anna Achmatova, siamo tutti per poco ospiti della vita

by Michela Conoscitore

La poesia era già nel nome. Quel nome che si era scelta perché il padre le aveva proibito di usare quello vero, Gorenko, per non infangarlo, quando venne a sapere che la figlia scriveva poesie. Anna Achmatova trovò l’ispirazione per il suo nom de plume, ripensando alla bisnonna materna: in famiglia si diceva fossero discendenti degli Achmatov, un’antico clan tataro che poteva vantare parentele con Gengis Khan. Ciò non fu mai confermato, ma Anna volle inserire nella sua vita quel pizzico di leggenda. Quel susseguirsi di a, dal nome palindromo al cognome altisonante, racchiudevano già un verso promettente.

Anna Gorenko nasce nel 1889, nei pressi di Odessa; entrambe i genitori avevano origini nobili, il padre Andrej era un ingegnere navale, mentre la madre Inna viene descritta dalla poetessa come una donna di “una bontà che, a quanto pare, io ho ereditato da lei, vano dono alla mia vita crudele”. La famiglia Gorenko si trasferì a Carskoe Selo, vicino San Pietroburgo, sede della residenza reale degli zar, in campagna. Tra la vita qui e le estati in Crimea, Anna crebbe libera e scalza, selvaggia e indipendente, libera da ogni condizionamento della buona società a cui apparteneva. Un’infanzia pagana, la definì lei stessa. Nel 1905, i genitori divorziarono, e andò a vivere con la madre e i fratelli sul Mar Nero, dove terminò il liceo. In seguito si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, ma la poesia occupava già interamente la sua mente, non permettendole di proseguire gli studi giuridici.

Dal 1903, il giovane poeta Nicolaj Gumilëv iniziò a farle una corte serrata. Anna era bella, alta e flessuosa, con occhi grigio-verdi e la frangia che le coronava la fronte. Dopo svariati tentativi di suicidio di lui e proposte di matrimonio, accettò di sposare Gumilëv, per sfinimento, nel 1910. Al matrimonio non presenziò nessuno della sua famiglia, il viaggio di nozze si svolse a Parigi dove Anna ebbe modo di conoscere il pittore italiano Amedeo Modigliani, che la ritrasse più volte in disegni che le donò, e che purtroppo sono andati tutti perduti.

Quando rientrarono in Russia, Nicolaj sembrò aver perso l’interesse e l’ardore per la neo sposa: decise di partire per l’Africa in solitaria, il viaggio sarebbe durato sei mesi. Anna, delusa, partì per Parigi, rifugiandosi nell’amicizia di Modigliani. Spesso si legge che i due siano stati amanti, ma quello che legava la poetessa all’artista livornese era solo una grande amicizia e affinità intellettuale. Infatti, trascorsero numerose giornate al parco, durante le quali amavano recitare i versi dei loro poeti preferiti.

Come scrisse Boris Pasternak, il celebre scrittore russo, e uno degli amici più cari della Achmatova, Anna era capace di “dire il nuovo verbo nel linguaggio vecchio”: la poetessa fu una ‘insaziabile divoratrice’ dei grandi del passato, da Dante Alighieri, che non smise mai di leggere e prendere a modello, a Giacomo Leopardi, fino al suo adorato Puskin, e terminare con Verlaine, Baudelaire e Mallarmè.

Tornata in Russia, prese avvio la sua carriera poetica: tutto iniziò con la nascita della corrente acmeista, fondata dal marito Gumilëv, la quale si poneva in dissidio con il simbolismo, preferendogli una poesia della realtà, più alla portata di tutti. Quel periodo per la poetessa fu esaltante, le riunioni al Cane Randagio, un cafè cabaret che ospitava il gruppo letterario, e durante le quali Anna strinse amicizie importanti come quella con Osip Mandel’štam, la portarono a pubblicare la sua prima raccolta poetica, nel 1912, La sera. I primi componimenti, che riflettevano l’essenza del movimento acmeista, erano scarni ed essenziali, spesso poveri di verbi, ma con uno spessore poetico, una vitalità e originalità che sorpresero tutti. Il libro ricevette recensioni positive, e l’Achmatova fu famosa e apprezzata fin dagli esordi, una voce nuova fautrice di un’innovativa educazione sentimentale per le donne russe.

Strinsi le mani sotto il velo oscuro…

“Perché oggi sei pallida?”

Perché d’agra tristezza

l’ho abbeverato fino ad ubriacarlo.

Come dimenticare? Uscì vacillando,

sulla bocca una smorfia di dolore…

Corsi senza sfiorare la ringhiera,

corsi dietro di lui fino al portone.

Soffocando, gridai: “E’ stato tutto

uno scherzo. Muoio se te ne vai”.

Lui sorrise calmo, crudele

e mi disse: “Non startene al vento.”

La prima raccolta narrava di sentimenti e relazioni, di come un amore può nascere, evolversi, e poi spegnersi. Raccontata però con i versi della poetessa russa, l’esperienza acquistava nuovi significati, proiettava nuove visioni, si comprendeva appieno un cuore di donna che dalla confusione dell’ “Infilai nella mano destra, il guanto della sinistra”, passava poi a “l’amata chiede molte cose, la disamata nulla chiede”. Nel 1914 seguì la nuova raccolta Il Rosario, altro successo, e nel frattempo nacque l’unico figlio dei Gumilëv, Lev.

Nel 1918, lei e il marito decisero di separarsi e Anna fu prolifica in questo periodo, dando alle stampe tre importanti raccolte poetiche come Lo stormo bianco, Piantaggine e Anno Domini MCMXXI: in questi suoi ultimi libri, la poesia si approfondì, cercò e trovò toni più forti, e possibilmente ancora più asciutti e realistici, mentre la poetessa visse la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre. La sua vita proseguì con altri amori e matrimoni, come quello col possessivo assiriologo e letterato Šilejko, e col critico d’arte Nicolaj Punin, che molti indicano come il suo grande amore.

Proprio dopo la rivoluzione del 1917, che per gli artisti russi dissidenti vivere nel proprio paese diventò una lotta, e con l’instaurazione del regime stalinista l’esistenza divenne impossibile. Molti di loro emigrarono, scegliendo a malincuore di lasciare la Russia; l’Achmatova, invece, rimase al suo posto, a condividere insieme al proprio popolo le storture imposte da Stalin:

Una voce mi giunse.

suadente

mi chiamava, diceva: 

Vieni qua,

lascia il paese sordo e peccatore,

lascia la Russia per sempre.

Io mi tappai le orecchie con le mani,

perché l’indegno discorso,

non profanasse l’anima dolente.

Tra quelli che decisero di andarsene c’era anche l’amica e poetessa Marina Cvetaeva che Anna, successivamente, celebrerà in una poesia, commemorandone il destino ingiusto. Il sambuco che fiorisce è il ricordo dell’amica che non sfiorirà mai:

Siamo tutti per poco ospiti della vita,

vivere è solo un’abitudine.

Lungo le vie del cielo mi sembra di ascoltare

Il richiamo di due voci.

Due? Ma verso il muro di levante,

fra le macchie tenaci del lampone,

c’è un ramo fresco e scuro di sambuco…

È una lettera di Marina.

La poetessa non fu mai arrestata, troppo famosa e amata, anche se mal sopportata da Stalin che si vedeva derubare degli applausi in piedi, formalmente dovuti soltanto a lui in Russia, dalla Achmatova, durante le serate letterarie organizzate in onore della sua poesia. Anna non subì alcun tipo di carcerazione, ma fu costretta al silenzio: escluse le raccolte poetiche Il salice e I sei libri del 1940, non furono più pubblicate sue opere, fino al termine della dittatura stalinista. I suoi versi, però, circolarono clandestini, scritti su foglietti di carta e donati ai suoi lettori, imparati a memoria e poi quei fogli stracciati. La sua poesia, quindi, fu dichiarata proibita, pericolosa e antiregime.

Se nel 1921 Gumilëv fu arrestato e fucilato come controrivoluzionario, nel periodo delle purghe staliniste sia il figlio Lev, la cui unica colpa era quella del suo cognome, e Punin furono rinchiusi nei gulag. Lev ne uscirà vivo nel 1956, mentre Punin, che nel frattempo si era separato dalla Achmatova, vi trovò la morte nel 1953. L’ostracismo stalinista le sottrasse anche la tessera alimentare, così visse di elemosina grazie ad amici, e ogni giorno era in fila fuori al gulag in cui era rinchiuso Lev per portargli cibo e vestiario. Questo per diciassette mesi, nei quali Anna assistette alla sofferenza dei suoi connazionali, delle madri russe che come lei si maceravano nell’incertezza di rivedere i propri figli ancora vivi. La Achmatova decise di dar loro voce, di raccontare questo periodo cupo e denunciarlo:

No, non sotto un cielo straniero,

non al riparo di ali straniere:

io ero allora col mio popolo,

là dove, per sventura, il mio popolo era.

(…)

Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato,

il riflesso del vostro volto,

i vani palpiti di vane ali…

(…)

fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.

Io vi vedo, io vi ascolto, io vi sento.

Le poesie della raccolta Requiem, nate in questo periodo, non conobbero mai in quegli anni la pubblicazione, come le altre si diffusero su fragili fogli di carta, ma racchiudevano in loro una delle denunce sociali più coraggiose che un letterato abbia mai rivolto al potere. La forza lirica di Anna Achmatova, colei che voleva essere chiamata ‘poeta’ e non poetessa, risiede nel contaminare l’arte con le necessità civili della vita reale: l’io poetico si trasforma in io maieutico, divenendo testimone pressante e infallibile delle ingiustizie staliniste. La poetessa, purtroppo, fu poi costretta a comporre una raccolta di poesie da dedicare a Stalin, pena la morte del figlio Lev; Anna le compose dolorosamente, ma impose che non sarebbero mai state pubblicate, nemmeno dopo la sua morte.

La riabilitazione ufficiale arrivò solo nel 1955, anche se i suoi movimenti e la sua vita furono ancora tenuti sotto controllo. Dovette aspettare il benestare del governo per recarsi, prima, nel 1964 in Italia per ritirare il premio Etna-Taormina, e poi nel 1965 la laurea honoris causa ad Oxford, in Gran Bretagna.

Il suo cuore aveva amato e patito, come tutti i cuori umani. Eppure il sentire di un poeta è sempre amplificato, più forte avverte le emozioni, più ne trae linfa vitale per comporre, ma allo stesso tempo si ricopre di ferite e cicatrici. È quello che accadde al cuore di Anna Achmatova: la grande poetessa russa morì nel 1966, per infarto. Di lei non rimangono solo poesie, ma anche l’esempio di una impavida eroina moderna:

Sentirai il tuono e mi rammenterai,

penserai: desiderava una bufera…

Sarà una striscia di cielo accesa di rosso,

e il cuore come allora in fiamme.

E ciò accadrà nel giorno moscovita

in cui abbandonerò per sempre la città,

muoverò verso il bramato riparo,

lasciando in mezzo a voi ancora la mia ombra.

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