Eleonora Duse, la bambina sola che divenne la ‘Divina’ rivoluzionaria dell’interpretazione teatrale

by Germana Zappatore

Quelle povere donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre io m’ingegno di farle capire alla meglio a quelli che m’ascoltano, quasi volessi confortarle, sono esse che adagio adagio hanno finito per confortare me. Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – se nacquero perverse – purché io sento che hanno pianto – hanno sofferto o per sentire o per tradire o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini“.

(Eleonora Duse, lettera a Francesco d’Arcais del 4 agosto 1884).

Eleonora Duse era chi interpretava sulla scena. Ecco perché divenne una delle più grandi attrici teatrali nel periodo a cavallo fra l’Otto e il Novecento. Ecco perché fu soprannominata la ‘Divina’ (prima da D’Annunzio, poi dal suo pubblico). Rivoluzionò completamente il modo di recitare gettando le basi per teatro moderno. E il merito della sua grande intuizione è da attribuire alla sua biografia. Se non avesse vissuto ‘quella’ vita, forse non sarebbe mai diventata Eleonora Duse.

Era figlia d’arte. Nata a Vigevano (Pavia) nel 1858, Eleonora era la nipote di Luigi Duse, un impiegato del Monte di Pietà di Padova che contro il volere della moglie lasciò il lavoro per seguire una compagnia di comici e diventare dopo due anni il capocomico di una propria compagnia. Ma era anche la figlia degli attori Alessandro Vincenzo Duse e Angelica Cappelletto che sbarcavano il lunario girando l’Italia con la compagnia Duse-Lagunaz. Inevitabile, dunque, per Eleonora crescere a pane e teatro (salì sul palco per la prima volta a quattro anni nella messa in scena de ‘I miserabili’ di Victor Hugo).

Ma a forgiare quella che diventerà la ‘Divina’ fu anche altro. La famiglia Duse era sempre in viaggio per tournée e la vita da nomade incise non poco sul carattere della piccola Eleonora. Ancora piccola, dovette fare i conti non soltanto con la miseria e la mancanza di radici tipica del nomadismo, ma anche con la solitudine e l’emarginazione: trascorreva molto tempo da sola (a volte anche le notti, quando i genitori erano impegnati in una messa in scena) e a scuola veniva tenuta in disparte perché umile figlia di attori. Così sviluppò una straordinaria sensibilità e una enorme capacità di comprensione e di empatia soprattutto con gli animi sofferenti e tormentati come il suo. Dote che mise al servizio dell’arte teatrale per interpretare (o meglio, diventare) le ‘sue’ eroine, ma che fu il frutto di un lungo percorso di studio e di autoanalisi iniziato all’indomani della morte della madre (1873) avvenuta quando Eleonora aveva soltanto 14 anni. Perduta l’unica persona capace di lenire le sue sofferenze, la ragazzina scoprì che l’unico farmaco per i suoi tormenti, “il rifugio”, “l’unica consolazione” era quello che lei più tardi chiamò “lo stato di grazia”, ovvero “l’ebbrezza” che la faceva sentire in pace con se stessa e che raggiungeva quando sul palco il suo destino “si confondeva” con quello del personaggio, quando diventavano suoi il destino e i sentimenti di Giulietta, Santuzza, Teresa Raquin, Cleopatra o Nora.

Per tale motivo rivoluzionò il modo d recitare: niente trucco pesante in scena, niente gesti melodrammatici e toni di voce impostati. La Duse cercava la naturalezza dell’interpretazione, cosa impensabile in un periodo in cui la recitazione era l’esatto contrario di ciò che, invece, lei voleva fare. E le sue ‘folli’ idee spesso si scontrarono con la riottosità dei registi che la disprezzavano e umiliavano. Ma la giovane non si scoraggiò mai, decisa com’era a riscattarsi da una vita di stenti e di sofferenza dell’anima, e la sua ostinazione la premiò con applausi e ovazioni da parte del pubblico quando nel 1878 recitò a Napoli per la compagnia Ciotti – Belli Blanes. In scena Eleonora fu una Elettra che “sentiva, amava e soffriva” (Antonio Traversi Camillo, 1926) e una Ofelia di “straziante umanità” (Olga Signorelli, 1938). Perché i suoi personaggi non facevano altro che attingere ai suoi ricordi e alla sua storia emotiva.

Iniziò per lei il periodo più felice: entrò nella compagnia di Giovanni Emmanuel dove insieme all’attrice Giacinta Pezzana ebbe la possibilità di affinare il suo stile interpretativo, recitò nei drammi di Victorien Sardou e di Alexandre Dumas figlio, conobbe la scrittrice Matilde Serao con la quale si instaurò una profonda e sincera amicizia e ottenne la sua consacrazione con il ruolo di protagonista in ‘Teresa Raquin’ di Emile Zola. Nel celebre dramma francese, infatti, la Duse portò ai massimi livelli il suo stile interpretativo che puntava sul “fior di labbra” e sul linguaggio del corpo più che sulla parola.

A Napoli si innamorò. Lui era Martino Cafiero, direttore del ‘Corriere del Mattino’ e a presentarglielo fu la stessa Serao. Lei si innamorò perdutamente e rimase anche incinta, ma lui la lasciò appena seppe della gravidanza. Era il 1979 e l’attrice provò (di nuovo) il dolore dell’abbandono: da parte dell’amante e del figlio che morì poco dopo aver visto la luce. Al dolore personale fece da contraltare il successo che la Duse continuò a riscuotere nei teatri. Dopo la parentesi napoletana era arrivata a Torino nella compagnia di Cesare Rossi che abbandonò poco dopo per crearne una tutta sua. Nel frattempo si era sposata con Tebaldo Marchetti ed era nata la loro primogenita Enrichetta. La maternità fu per lei una nota assai dolente. Con la figlia, infatti, non riuscì mai a ricreare il legame che aveva avuto con l’amatissima madre: Enrichetta per lei era un impiccio, un impedimento alla sua carriera e per questo là mandò in collegio, anche se ufficialmente la Duse sostenne sempre di aver fatto questa scelta per dare alla figlia l’istruzione e la stabilità che lei da piccola non aveva mai avuto. Ma non solo. La bambina incarnò sempre il ricordo poso gradito del suo matrimonio finito molto presto con Marchetti: “Le mie giornate accanto a questa creatura sono tutte di un passato odioso e morto che rivedo con ribrezzo. È più forte di me, è più forte di me” scriveva nel 1887 ad Arrigo Boito. L’incontro, invece, con Sarah Bernhardt avvenuto nel 1882 in occasione della sua tournée a Torino con ‘La signora delle camelie’, le diede la definitiva spinta ad osare con la scelta dei testi e dei personaggi da interpretare: “Per reazione mi sentii liberata – dichiarò tempo dopo – e sentii che avevo il diritto di fare tutto ciò che volevo e non quello che mi veniva imposto”.

E fu così che la Duse scelse di sperimentare nuovi ruoli: ‘Antonio e Cleopatra’ di William Shakespeare nell’adattamento fatto appositamente per lei da Arrigo Boito (con cui ebbe una relazione sentimentale clandestina durata diversi anni), ‘Casa di bambola’ e ‘Hedda Gabler’ di Ibsen, i drammi dannunziani (‘Il sogno di un mattino di primavera’, ‘La Gioconda’, ‘Francesca da Rimini’, ‘La città morta’ e ‘La figlia di Iorio’). Come sappiamo, fra alti e bassi, tradimenti (sia sessuali che artistici) e riappacificazioni, l’attrice fu sentimentalmente legata al Vate per una decina di anni a partire dal 1894 (alla loro storia d’amore è ispirato il romanzo ‘Il fuoco’). La Duse, affascinata dalla cultura del Vate e convinta di aver trovato in lui l’autore che avrebbe potuto creare i personaggi che cercava, finanziò le produzioni teatrali dannunziane. Ecco cosa diceva nel 1898 in una intervista.

“Ho bisogno di tentare qualcosa di nuovo. Quello che ho fatto fino ad ora, quello che seguito a fare anche ora, non mi contenta più. Sento dentro di me qualcosa che muore e qualcosa che rinasce. Sento tutta la parte falsa, caduca, anzi, già caduta delle produzioni nelle quali io recito. E sento, nello stesso tempo, il desiderio sia pur vago, e l’aspirazione, sia pure indefinita, verso una forma d’arte che risponda più direttamente e più profondamente allo stato presente del mio spirito”.

Ma non andò esattamente come aveva immaginato. Alle continue scappatelle dell’amante si andava ad aggiungere lo scarso entusiasmo del pubblico per le opere dannunziane. Tuttavia la Duse continuò ad essere acclamata come la ‘Divina’, ma ironia della sorte nel 1904 per motivi di salute (e dopo aver pregato invano il poeta di rimandare la prima) non recitò nell’unico dramma dannunziano che riscosse il consenso di pubblica e critica, ‘La figlia di Iorio’. E finì anche il loro amore.

Tornò a recitare e nel 1916 si lasciò tentare anche dal cinema con la pellicola ‘Cenere’ tratta dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda. Il 21 aprile del 1924, durante la tournée statunitense, morì di polmonite a Pittsburgh. Fu seppellita nel cimitero di Sant’Anna ad Asolo (Treviso).

Ecco cosa scrisse il drammaturgo russo Anton Cechov dopo averla vista recitare nel dramma ‘Antonio e Cleopatra’. “Ho proprio ora visto l’attrice italiana Duse in Cleopatra di Shakespeare. Non conosco l’italiano, ma ella ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola; che attrice meravigliosa!”.

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