Ida Dalser, la donna che portò Mussolini fedifrago in tribunale. «Se nessuno mi ascolta, devo continuare a gridare»

by Michela Conoscitore

Benito Mussolini, dittatore osannato e odiato dall’Italia del Ventennio, firmatario dei Patti Lateranensi e sostenitore della famiglia tradizionale e unita, anche lui, come tutti, possedeva un passato che non rifletteva, tuttavia, gli ideali che inculcò agli italiani attraverso la propaganda fascista. Un passato che, dopo la marcia su Roma, divenne sempre più fragoroso e tediante. Quel passato aveva il nome di una donna, Ida Irene Dalser.

Ida Dalser era nata vicino Trento, a Sopramonte, nel 1880 da una famiglia ricca ed influente. Il padre Albino era borgomastro, ovvero il sindaco del piccolo centro allora appartenente all’Impero Austro-Ungarico. Ida ricevette un’istruzione di eccellenza e completò gli studi a Parigi dove si laureò in medicina estetica. Giovanissima, aprì un salone di bellezza a Milano ma spesso faceva ritorno a Trento per trascorrere del tempo con la famiglia. Dopo una prima relazione terminata in un’aula di tribunale con un certo Giuseppe Brambilla, Ida conobbe Benito Mussolini, attivista e direttore del giornale socialista Avanti!. La donna se ne innamorò perdutamente, credendo non soltanto a lui come uomo ma anche al suo progetto politico, tanto da investirvi la sua principale fonte di sostentamento, il salone di bellezza, vendendolo e donando i proventi a Mussolini affinchè potesse avviare un nuovo giornale, Il Popolo d’Italia.

Ida credette, e si illuse. Non sapeva dell’esistenza di Rachele Guidi, la moglie del paese, Predappio, che Mussolini le tenne nascosta, insieme ad Edda, la primogenita del futuro Duce. Ida non sapeva nemmeno quando, ignara, sposò in chiesa il suo Benito, pensando di essere la prima, l’unica donna nella vita dell’uomo che amava. Quando diede alla luce Benito Albino, il 16 novembre del 1915, il marito fedifrago era già lontano da lei e dal bambino. Ida era diversa dalle altre sue amanti, non era arrendevole, una che accettava la volontà del maschio dominante rimanendo a bocca chiusa. Non era sicuramente una ragazzotta di provincia, perché lottò per sé stessa e il bambino, ottenendo nel 1916, dopo aver trascinato Mussolini in tribunale, il riconoscimento di Benito Albino figlio legittimo e il versamento mensile di duecento lire per il mantenimento.

Nonostante ciò, la vita non divenne più semplice per loro anche perché Ida continuò a denunciare le malefatte di Mussolini come uomo, a rinfacciargli la vita coniugale che le aveva lasciato intravedere e poi negata. Provò a far valere i suoi diritti di moglie, la loro unione in chiesa era stata ufficializzata, ma misteriosamente quei documenti scomparvero. Negli anni Cinquanta, il parroco di Sopramonte, don Luigi Pedrolli confessò al bibliotecario di Trento, Antonio Zieger, che l’atto di matrimonio, allegato all’attestato di nascita di Dalser, fu richiesto nel 1925 da ‘gente interessata’ e fatto sparire. Per questo motivo, Ida non fu creduta da nessuno quando affermava di essere la moglie del Duce, fu creduta pazza e allontanata da tutti. Peraltro il matrimonio religioso, all’epoca nell’Impero Austro-Ungarico, non aveva alcun valore.

Nel 1917, quando Mussolini fu ricoverato in un ospedale di Milano per delle ferite riportate durante un’esercitazione militare, Ida vi si precipitò, ancora innamorata dell’uomo. Vi trovò al capezzale la moglie Rachele, così la donna non riuscì a trattenere il suo animo impetuoso e l’affrontò in uno scontro fisico, con Mussolini inerme ad assistere alla scena dal letto.

Il Governo, per favoreggiare Mussolini, il Governo protettore della crapula e della disonestà e non ancora saturo dei suoi delitti su due creature innocenti mi ha levato il sussidio da due mesi. E ora debbo intraprendere un lungo viaggio fino a Trento mia patria col piccino ammalato e senz’abiti una forza suprema mi dice di chiederle aiuto che quell’aiuto passato non è stato, e non sarà certo dimenticato da noi!

Questo è uno stralcio di una delle tante lettere che Ida inviò al direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, per denunciare la sua storia e ottenere giustizia. La donna, finchè ne ebbe la possibilità, non smise mai di raccontare la verità, fornendo un’altra versione di Mussolini, da tutti ritenuto il Duce, l’uomo della Provvidenza, come lo definì papa Pio XI dopo la firma dei Patti Lateranensi, insomma tutto casa e chiesa ma che, in realtà, aveva avuto molte donne, quelle che spesso venivano introdotte con discrezione a Palazzo Venezia, oppure donne come Ida che, con il loro sostegno economico, gli permisero di raggiungere i suoi fini.

Dal Mussolini esigo i capitali di mio padre, insomma tutto quello che è mio e che m’aspetta, poi di lui mi curerò come d’un verme che striscia per terra.

Se nessuno mi ascolta, devo continuare a gridare”, fa dire Marco Bellocchio alla sua Ida Dalser nel film Vincere, e infatti quella divenne la sua missione, il suo solo scopo nella vita oltre a quello di occuparsi di Benito Albino, sempre più somigliante al padre. Nel frattempo, dal 1921 la donna col bambino era tornata a Trento, ospite della sorella di lei e del marito, che assunsero anche la tutela legale del nipote. Gestire Ida per loro non fu affatto semplice, come emerge da questa lettera che Riccardo Paicher, cognato di Ida, scrisse ad Arnaldo Mussolini per lamentarsi della situazione:

La mia, purtroppo, signora cognata Ida Dalser, nei suoi eccessi di malata isterica e nevrastenica a forma acuta mi diventa ogni giorno sempre più molesta e insopportabile. Sono persino costretto ad astenermi di portare mia moglie in campagna a Sopramonte nella mia proprietà per non subire gli eccessi di quella disgraziata e per non giungere a gravi conflitti. Siccome non intendo più tollerare questo stato di cose e siccome credo di avere tutto il diritto di usare la mia proprietà come me pare e piace, soprattutto per far godere a mia moglie e al piccolo Benito, che già considero come mio figlio, ho dovuto prendere la decisione di vendere la proprietà, unico mezzo per liberarmi da una terribile molestia.

Poco dopo questa lettera, Ida riuscì a sfuggire alla sorveglianza dei parenti e salì su un treno diretto a Roma. Una volta giunta nella Capitale, riuscì ad arrivare fino a Palazzo Venezia, dove fu bloccata all’entrata e riportata a casa. Era il 1925, tornata a Trento, durante una manifestazione importunò anche il ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, e fu allora che dopo essere stata immobilizzata e fermata dalla Polizia, fu internata nel manicomio di Pergine Valsugana. Furono diverse le fughe da lì, e i trasferimenti presso il manicomio psichiatrico di San Clemente a Venezia. Intanto Benito Albino fu affidato al nuovo tutore, il sindaco di Sopramonte Giulio Bernardi, e il Duce gli donò centomila lire di cui sarebbe entrato in possesso alla maggiore età.

Visse in un mondo di uomini Ida, in cui non riuscì a sopravvivere nonostante la tenacia e il coraggio: morì nel 1935, a Venezia, per emorragia cerebrale. Nessuno sa dov’è sepolta. Benito Albino fu arruolato nella Regia Marina come telegrafista, e inviato in Cina. Ai compagni continuava a ripetere che fosse il figlio del Duce, il destino della madre ricadde anche su di lui perché nessuno gli credette. Quando tornò in Italia, il giovane fu rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Mombello di Limbiate, a Milano, dove morì di consunzione a soli ventisette anni.

Per molto tempo le loro morti furono ritenute opera del regime, non si ha ancora alcuna certezza in merito ma senza alcun dubbio Mussolini li condannò all’oblio più cupo.

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