«Quanti la lessero, ne piansero»: la tragica storia di Italia Donati, la giovane maestra vittima di calunnie e persecuzioni

by Michela Conoscitore

“Nei primi giorni di giugno 1886, giunse da Pistoja al nostro giornale la notizia secca secca che una maestra comunale in un paesetto di montagna, insidiata nell’onore, si era uccisa in un momento di disperazione. È noto che le povere maestre, nei piccoli comuni, sono spesso oggetto di indegne persecuzioni, che le pongono nell’alternativa di darsi al prepotente del luogo o di morire di fame. A nostre spese, quindi, mandammo un nostro redattore, Carlo Paladini, in Toscana, ordinandogli di fare un’inchiesta diligente. Ne venne fuori una storia tanto piena di dolore che quanti la lessero, ne piansero.”

Questo trafiletto proviene dal Corriere della Sera del 28 aprile del 1887, e ricordava, a quasi un anno di distanza, la drammatica circostanza in cui si era tolta la vita la giovane maestra Italia Donati. Il suo suicidio, ingiusto e tragico, diede voce a tante altre insegnanti dell’epoca, che versavano, come lei, in condizioni che è riduttivo definire ai limiti della dignità umana. Quali motivazioni spinsero la ventitreenne maestra ad una decisione così estrema?

Italia Donati nacque a Cintolese, un paese in provincia di Pistoia, nel 1863. La sua era una famiglia modesta e numerosa, come tante dell’entroterra contadino toscano, ma convinti dal maestro di Italia, che vide in lei intelligenza e passione, i genitori la supportarono nel proseguire gli studi, e la giovane riuscì quindi a conseguire l’abilitazione da maestra. Sul finire dell’Ottocento, in Italia, erano davvero esigue le possibilità che una donna aveva per rendersi economicamente indipendente; il mestiere di maestra era uno dei pochi, anche se malpagato e difficile. Italia ricevette il suo primo incarico a Porciano, un paese a dieci chilometri dal suo, e la ragazza l’accettò con entusiasmo.

L’Italia, come paese unito, era ancora un organismo giovane e quel che premeva al governo era decisamente “fare gli italiani”: il mezzo migliore per raggiungere questo obiettivo era la scuola, e quindi un esercito di maestri fu inviato nei luoghi più sperduti del paese per alfabetizzare e diffondere il sapere. Le maestre, che già vedevano i loro stipendi decurtati di un terzo dei guadagni rispetto ai loro colleghi uomini, guadagnavano ancora meno se venivano assegnate a piccoli centri o borghi. Inoltre, all’epoca, in base alla legge Coppino, chi si occupava di assumere, licenziare e redigere un certificato di moralità dei docenti, che sarebbe poi stato trasmesso al ministero dell’Istruzione, erano i sindaci dei paesi. In poche parole, i primi cittadini esercitavano un potere abnorme, soprattutto sulle maestre, nell’ombra dei loro scranni comunali. Se alcuni operarono con correttezza, altri approfittarono incondizionatamente della loro autorità, ed è quel che successe ad Italia Donati.

Sindaco di Porciano era Raffaello Torrigiani, ricco possidente della zona, che accolse Italia al suo arrivo in paese: le maestre, una volta raggiunto il posto del loro incarico, erano completamente abbandonate a sé stesse, senza alcuna tutela da parte dello stato. Dovevano provvedere in autonomia per quanto riguarda l’alloggio, e spesso erano gli stessi ‘datori di lavoro’, i sindaci, ad offrire loro vitto e alloggio gratuitamente, ricordando le umili finanze di cui disponevano. Nessuno fa mai niente per niente, e va da sé che le docenti di allora erano sottoposte a vessazioni e avances continue, alle quali non potevano ribellarsi, se volevano conservare la docenza. Ricordando i tempi in cui si svolgono i fatti, queste donne contribuivano anche a mantenere le famiglie d’origine, che avevano dovuto sostenere costi ingenti per la loro istruzione, quindi lavorare per loro era tassativo.

Il Torrigiani, a Porciano, aveva già una fama illustre di donnaiolo e conviveva, nella sua villa poco fuori paese, con la moglie Maddalena e l’amante Giulia, con relativi figli avuti dalle due donne. A queste, si aggiungevano costantemente altre relazioni, fin quando il sindaco non puntò Italia. Come scrisse il giornalista Carlo Paladini, nella sua inchiesta sul Corriere della Sera, a proposito del caso Donati, Italia era: “…giovanissima e bella assai. Di forme scultoree, di personale alto, elegante, con un visino affilato ed una grazia non comune tra le fanciulle pari sue, di modi gentili e affabile con tutti, s’era acquistata la simpatia di quanti accostandola si sentivano attirati dalla sua fiorente giovinezza.”

Torrigiani offrì ad Italia una sistemazione in una delle sue numerose abitazioni a Porciano. La donna, ovviamente, era allo scuro della reputazione dell’uomo, e quando le visite del sindaco si fecero insistenti ed invadenti, la donna comprese di essere in trappola. L’uomo, fermamente respinto dalla maestra, cominciò a diffondere voci in paese, sparlando con i suoi amici di un bacio rubato alla giovane, a cui sarebbe seguito altro. Ben presto, a Porciano, Italia fu additata come la terza amante del sindaco, e queste dicerie raggiunsero anche Cintolese, il paese d’origine di Italia, scandalizzando i suoi concittadini.

Italia provò a non dar peso a quei pettegolezzi, e si concentrò sul lavoro, dedicandosi amorevolmente ai suoi alunni, anche durante la grave epidemia di tifo del 1884. La situazione si aggravò quando giunse, al tribunale di Pistoia, una denuncia anonima in cui si accusava Italia di aver abortito clandestinamente, con la complicità del sindaco Torrigiani. L’uomo fu costretto a dimettersi dall’incarico, mentre Italia fu indagata dalla Regia Procura. La donna difese strenuamente la sua innocenza, chiedendo anche accertamenti medici che la confermassero. In seguito, riuscì ad ottenere il trasferimento a Larciano, lasciando Porciano. Purtroppo, la sua fama la precedette: anche qui, venne considerata una poco di buono e iniziarono a girare voci su una sua relazione col figlio del suo proprietario di casa, da cui pare aspettasse un figlio.

Italia, stremata da questa campagna diffamatoria che non solo minò la sua credibilità come docente, ma soprattutto di donna, la sera del 31 maggio del 1886 scrisse un biglietto al fratello Italiano dicendogli:

Sono innocentissima di tutte le accuse fattemi e la prova l’avrai, come l’avranno tutti, dopo la mia morte. A te, mio unico fratello, a te mi raccomando con tutto il cuore, e a mani giunte, di fare quello che occorrerà per far risorgere l’onore mio. Non ti spaventi la mia morte, ma ti tranquillizzi pensando che con quella ritorna l’onore della nostra famiglia. Prendi il mio corpo cadavere, e dietro sezione e visita medico-sanitaria fai luce a questo mistero. Sia la mia innocenza giustificata.

Poi, si diresse verso il ponticello sul fiume Rimaggio, fermò le gonne con delle spille da balia per evitare che le sue gambe fossero scoperte, quando il suo corpo sarebbe stato ritrovato, e si gettò nel fiume. Come richiesto al fratello, fu effettuata l’autopsia sul cadavere di Italia, che certificò la verginità della giovane, da allora nota a tutti. La famiglia potette permettersi funerali dimessi, e furono costretti a lasciare il corpo sepolto a Porciano, anche se Italia aveva avanzato la richiesta di tornare a Cintolese: “Chiedo questo perché le ragazze che mi hanno odiata e biasimata in vita non vengano a burlarsi ancora di me per la via del sepolcro”.

Alcuni mesi dopo, grazie ad una sottoscrizione dei suoi concittadini, il feretro ritornò a Cintolese e ai funerali solenni parteciparono più di ventimila persone perché, nel frattempo, la storia di Italia era diventata un caso nazionale. Oltre al già citato Paladini, se ne occupò anche la scrittrice e giornalista Matilde Serao, che dalle colonne del Corriere di Roma, nell’articolo Come muoiono le maestre, denunciò anche altre storie, colleghe e compagne di lotta di Italia. I diritti delle donne, in quegli anni considerati poco più che un’utopia, comunque, anche se in silenzio, erano percepiti fortemente da mogli, madri, oneste lavoratrici che venivano sempre sopraffatte da logiche ataviche di sottomissione e reticenza forzata.

Italia, suicidandosi, tristemente ha rifiutato il suo corpo: separandosene, pensava di porre fine alle sue sofferenze e a quelle della sua famiglia. Rinunciando alla sua femminilità, alla ricchezza dell’essere donna, la giovane maestra ha messo in evidenza quanto nascere femmina valesse poco all’epoca, poichè le sue dichiarazioni sulla propria integrità morale, quindi una questione privata ed esclusivamente personale, valevano meno della vox populi, becera e maschilista. Italia Donati gridò all’Italia intera l’esistenza delle donne lavoratrici, la loro fierezza e la forza nel sopportare soprusi vecchi di secoli: il suo suicidio spezzò la catena di complicità miserabile a cui le donne, per troppo tempo, avevano dovuto sottostare.

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