Loïe Fuller la storia della geniale danzatrice dalla vita piena di contraddizioni

by Caterina Del Grande

Loïe Fuller è stata una delle ballerine più famose del mondo che ha dato vita a performance assolutamente uniche e innovative per l’epoca manipolando lunghi strascichi di seta facendoli volteggiare in aria come nuvole grazie all’ausilio di ingegnosi marchingegni creati e brevettati da lei e supportata da fasci di luce colorata. Manager di se stessa, scenotecnica, regista, icona del simbolismo, Loïe Fuller fu anche una contraddizione vivente e una donna di una forza straordinaria.

Conobbe il successo a 32 anni, un’età che per le ballerine rappresentava il viale del tramonto e se nei manifesti appariva alta e magra in realtà era una donna piuttosto paffuta con un viso abbastanza ordinario. Divenne un’innovatrice della danza senza aver mai studiato danza, era totalmente autodidatta. Cofondatrice di due musei d’arte, non aveva mai messo piede in un museo prima dei trent’anni quando arrivò a Parigi dall’Illinois.

Quello che aveva era soprattutto un’impavida volontà di andare avanti che, insieme a intraprendenza e ingegno, le consentirono di realizzare i suoi obiettivi. Queste qualità non solo le furono riconosciute ma furono spesso ammirate da altri, tra cui il critico d’arte Arsene Alexandre, che nel 1900 ne lodò la vitalità e la spinta positiva e la proclamò “un modello di donna da seguire”. 

Loïe ha rotto gli schemi della coreografia tradizionale e ha preparato la strada allo sviluppo della danza moderna. Contribuì a lanciare altri pionieri, tra cui Isadora Duncan. Una maga della luce che ha dato importanti contributi all’illuminazione scenica.

Il suo lavoro, attingeva ed esagerava un aspetto molto profondo della performance: la magica, indecidibile doppiezza implicita in ogni mimesi teatrale. Mentre la maggior parte delle star dei music-hall dell’epoca ricevevano elogi per il loro canto o danza, il loro fascino o la loro bellezza, Loïe si guadagnò riconoscimenti per la sua trascendenza quasi soprannaturale del sé. 

Quando il 5 novembre 1892, Loïe Fuller, bassa, grassoccia e trentenne, debuttò finalmente con il proprio nome al Folies-Bergère, un locale noto all’epoca per le sue spogliarelliste, ginnaste, trapeziste e altri artisti circensi fu subito un successo. Avvolta in un vasto costume ondeggiante di seta bianca cinese che lasciava visibili solo il viso e le mani, Loïe iniziò a esibirsi usando delle bacchette cucite all’interno delle maniche modellando il tessuto in gigantesche sculture vorticose che le galleggiavano sopra la testa. Nel mentre i riflettori coloravano le immagini. Il pubblico non vide una donna ma una viola gigante, una farfalla, un serpente strisciante e un’onda bianca dell’oceano. 

Dopo quarantacinque minuti, l’ultima forma si sciolse sulle assi del pavimento, Loie cadde in ginocchio, chinò la testa e il palco divenne nero.  Quando le luci si riaccesero fu osannata e la sua nuova carriera ebbe inizio.

Tutta Parigi parlava di questa “sacerdotessa del fuoco puro” e delle danses lumineuses che avevano “trasformato per sempre le Folies-Bergère”, nelle parole di Marchand, creando un “successo senza precedenti in questo teatro”. 

Loïe Fuller si sarebbe esibita al Folies per trecento sere consecutive, lanciata in quello che sarebbe diventato un regno ininterrotto di trent’anni come una delle ballerine più celebrate d’Europa.

Nel giro di pochissimo tempo divenne la personificazione dell’Art Nouveau, ispiratrice per poeti e artisti.

Ma non c’era niente della diva in lei.  Il suo viso tondo, i grandi occhi azzurri e il corpo basso e robusto le davano un aspetto da cherubino. Fuori dal palco si vestiva a casaccio con abiti fuori misura, teneva i capelli raccolti in una crocchia attillata e indossava occhialini rotondi. “Aveva una figura informe. Era una ragazza strana e mal vestita”, ricorda Eve Curie. 

Queste osservazioni non l’hanno mai infastidita anzi sembrava essere orgogliosa della propria goffaggine. Iniziò persino la sua autobiografia con una descrizione di se stessa come una bambina mal vestita, con un misero “abito di flanella gialla”. Continua scrivendo: “Ho continuato a non preoccuparmi molto del mio aspetto personale”. 

Nonostante i molti decenni trascorsi in Francia, il francese di Loïe rimase confuso e approssimativo. Non andava mai da nessuna parte senza la madre malata, una donna dall’aspetto molto austero.

Loïe è persino riuscita a essere apertamente lesbica senza suscitare disapprovazione nel suo pubblico. I giornalisti contemporanei tendevano a descrivere la sua vita personale scrivendo spesso del suo rapporto con sua madre e raramente menzionando anche la sua compagna convivente per oltre vent’anni, Gabrielle Bloch, un’ereditiera di banca che vestiva solo con abiti da uomo.

Loie Fuller non faceva parte di un movimento gay dell’inizio del XX secolo. Era gay, e questo faceva parte della sua identità, ma era più complicato di così. Come professionista, ha attraversato il mondo femminilizzato della danza sul palco e il mondo mascolinizzato dell’essere una manager, una produttrice e una designer di luci”, scrisse Albright.

Loïe deteneva oltre una dozzina di brevetti relativi ai suoi costumi e innovazioni nell’illuminazione scenica, incluso l’uso di lastre di vetro, grandi proiettori a lanterna e gelatine colorate. Era così interessata alla scienza dell’illuminazione che quando lesse dello sviluppo del radio e delle sue proprietà luminose su un giornale, fece amicizia con i suoi scopritori, Pierre e Marie Curie, che avevano una casa a Parigi.

Quando saliva sul palco questa donna americana robusta e apparentemente sgraziata scompariva sostituita dalle sue sequenze di sculture effimere. Nascosta da centinaia di metri di seta, manipolava i suoi voluminosi abiti in forme vorticose sopra la sua testa.

Durante la prima guerra mondiale ripagò la Francia esortando i suoi concittadini americani a unirsi al conflitto e persuadendoli a contribuire al soccorso dei suoi feriti, delle sue vedove di guerra e degli orfani. 

Poteva vantare amicizie non solo con celebrità francesi, ma anche con magnati americani e con rumeni e nobili. Una delle più strette di tutte è stata la sua amicizia con l’affascinante principessa e poi con la regina Maria di Romania.

I suoi costumi sono stati copiati e venduti come nei grandi magazzini Bon Marché e Louvre. Le donne compravano gonne e sciarpe “Loïe”; gli uomini sfoggiavano “cravatte Loïe”. Gli avventori dei bar hanno sorseggiato “cocktail Loïe”. 

Esperta donna d’affari, vendeva persino se stessa sotto forma di lampade, figurine e altri oggetti domestici. Provò anche la forma più nuova e potente di cultura di massa – il cinema – e realizzò diversi film, lavorando con Pathé, i fratelli Lumière e Georges Méliès.

Sebbene fosse una delle interpreti più pagate del periodo gestiva male il suo denaro ed era continuamente indebitata. Il suo modo di ballare era faticoso; era particolarmente estenuante quando era indebolita da uno dei suoi frequenti raffreddori o infezioni bronchiali. A volte temeva di diventare cieca, e la sua vista soffriva terribilmente della luce abbagliante a cui, anno dopo anno, era esposta. 

Quando il fisico non le permise più di esibirsi divenne un’insegnante che istruiva le ragazze nella “danza naturale” e dirigeva le loro esibizioni. Attraverso le sue allieve ha continuato a proporre spettacoli nuovi e meravigliosi. 

Sebbene si esibisse raramente nei suoi ultimi anni, continuò a ispirare artisti e designer fino alla sua morte nel 1928.

Ma per quanto famosa fosse ai suoi tempi, il personaggio di Loïe Fuller era e rimane sfuggente. Quasi tutte le immagini catturano la sua capacità di trascendere se stessa. La definizione che forse più le si addice fu quella di Cocteau che la definì la “ballerina che ha creato il fantasma di un’epoca”.

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