Renée Vivien, la vita della poetessa “maledetta” tra amori disperati e follia

by Michela Conoscitore

C’è una piazza nel quartiere Le Marais a Parigi, a lei intitolata. Probabilmente nemmeno i parigini, che da sempre prediligono storie inusuali, ricordano questa ‘cattiva ragazza’ dei primi del Novecento.

Si dice che vestisse sempre di nero o viola, adorava le violette, di cui portava con sé sempre un piccolo mazzolino, e i gioielli di Lalique. Eppure, questi vezzi così frivoli nascondevano un’anima inquieta: l’inquietudine di chi si sente fuori dal mondo, ma ne vorrebbe essere al centro. Renée Vivien, poetessa dimenticata, ricorda molto le donne dannunziane, che si perdono in sospiri d’amore e vivono solo per essere abbandonate. Però Renée, che si struggeva per avere l’amore, non nascose mai la sua natura, ma la celebrò.

Cantò il suo amore per le donne, precorrendo tempi e superando traguardi, senza mai voltarsi indietro:

Mi hanno segnata a dito con un gesto stizzito perché il mio sguardo ti cercava teneramente, e vedendoci passare nessuno ha capito che io ti avevo scelta semplicemente. Osserva la vile legge che io trasgredisco e giudica il mio amore, che non conosce male.

“(Gli uomini) non li amo né li detesto. Rimprovero loro di aver fatto molto male alle donne. Sono avversari politici”. Un punto di vista radicale sull’altro sesso, una visione che era sicuramente influenzata anche dal risveglio femminile che si ebbe in quell’epoca. Quindi, Renée contribuì non soltanto a sdoganare l’amore saffico, ma mise giudiziosamente in cattiva luce secoli di sopraffazioni maschili. Padri, mariti e fratelli avevano spadroneggiato e forzato, senza mai chiedere, organizzando matrimoni e soffocando inclinazioni. Lei non avrebbe accondisceso a questa pratica atavica.

Nacque in Gran Bretagna, nel 1877, col nome di Pauline Mary Tarn, da padre scozzese e madre statunitense. Famiglia agiata e colta, fin da piccola la poetessa avrebbe viaggiato, non soltanto oltre i confini geografici della sua isola, anche di quelli mentali e borghesi, per lei così gretti e ingiusti. Si trasferì a Parigi, appena compiuti i ventuno anni, grazie all’eredità del padre che le permise di condurre una vita di sfarzi e lussi. Prese il nome di Renée Vivien ed entrò nella comunità letteraria parigina, nella quale conobbe uno dei suoi amori più importanti: la poetessa statunitense Natalie Clifford Barney.

La Barney, amazzone infedele, si legò alla Vivien non soltanto per amore, ma anche per corrispondenze letterarie, infatti scrissero insieme alcune opere, fondarono dei veri e propri circoli intellettuali femminili nella Parigi della Belle Époque, e si ispirarono a vicenda.

A pochi, forse, la Vivien permise di avventurarsi davvero nella sua anima; alla Barney riuscì di scandagliare quel cuore così impervio e cangiante, perché se da un lato la poetessa inglese mostrava il suo volto affascinante e malinconico, a pochi faceva percepire la forza prorompente del suo desiderio di morte. All’amico Charles Brun, in una lettera, scrisse: “Voi non sapete cosa significhi per me l’angoscia della morte. È come il desiderio di una donna amata”. Appartenente alle correnti del Parnassianesimo e del Simbolismo, Renée coltivò questo culto per la morte, attraverso l’uso di droghe, digiuni, alcol, pratiche sadomasochistiche e innumerevoli tentativi di suicidio. Le sue poesie rispecchiavano non soltanto questo suo culto, ma mettevano in evidenza anche la sua predilezione alla sofferenza in amore, che si ricopriva anche di violenza e crudeltà come testimonia la poesia Il desiderio:

Lei è stanca, dopo tante sfibranti lussurie.

L’odore che emanano le membra martoriate

È pieno del ricordo di lente contusioni.

La dissolutezza ha scavato nei suoi occhi cupi.

E la febbre di notti avidamente sognate

Ancor più rischiara i pallidi capelli biondi.

I suoi gesti conservano languori nervosi.

Ma ecco che l’Amante dalle crudeli unghie lunghe

Subito la riafferra, la stringe e l’abbraccia

Con una passione sì feroce e al tempo stesso dolce,

Che il bel corpo sfinito s’offre, chiedendo venia,

In un affanno d’amore, di desideri e paure.

E il singulto cresce con malinconia,

esasperandosi infine dalla troppa voluttà,

Urlo diviene come s’urla nei momenti d’agonia,

Disperando di attenuare l’immensa sordità.

Poi, l’atroce silenzio, e l’orrore che ne deriva,

Il brusco soffocare della voce lamentosa,

e sul collo, simile a un gambo morto,

Il livido verde e sinistro delle dita.

.

La poetessa era votata all’autodistruzione, adorava essere vittima, e su queste premesse costruì le sue storie d’amore. Della Barney raccontò: “In un’atmosfera brutale di desiderio e bramosia, adora le torture, che suscitano il sorriso nel suo sguardo. Ma resta più fredda dei ghiacci eterni che sfidano il sole. Come difendersi da questa impenetrabilità dell’altra, se non con delle fantasie sadiche? La strangolerei, sarebbe osceno, brutale, selvaggio, ma sarebbe questione di un momento, e, nella gioia dell’assassinio mistico, la stenderei sul divano di stoffa. Ella dormirebbe, un po’ più pallida del suo sonno abituale. Non cercai di sfuggirla, perché sarei più facilmente scampata alla morte”.

Renée e Natalie Barney

Dopo aver interrotto la tempestosa relazione con la poetessa statunitense, Renée visse altre storie d’amore che, però, la videro sempre, alla fine, protagonista solitaria nella sua casa al Bois de Boulogne (oggi, Avenue Foch), circondata dalle cineserie che tanto amava. Natalie Clifford Barney non la abbandonò mai, per quanto la Vivien la tenne lontana al termine del loro rapporto. Quando la mattina del 18 novembre del 1909, Natalie si reca da Renée in visita, il maggiordomo le riferisce: “Mademoiselle vient de mourir”, (la signorina è morta or ora, ndr.).

La Barney commentò così la prematura scomparsa della Vivien: “La sua vita è stata un lungo suicidio, da cui ho cercato invano di salvarla, ma non era forse predestinata, visto che tutto, nelle sue mani, diventava cenere e polvere?

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