Sylvia Plath, morire è un’arte come ogni altra cosa

by Michela Conoscitore

La mattina di quell’11 febbraio 1963, in una cucina linda e silenziosa, Sylvia Plath affettò il pane, due porzioni imburrate e fragranti che avrebbero accompagnato le tazze di latte. Ovviamente, non dimenticò dei tovaglioli. La perfezione prima di tutto, simile ad una maledizione. Mentre preparava la colazione ai figli, con lo scotch che occhieggiava sul tavolo della cucina, quel demone che la perseguitava da trentuno anni, le teneva una mano sulla spalla, a mo’ di incoraggiamento per quel che stava attuando. Approvava, finalmente, che Sylvia stesse seguendo la sua vera natura.

Quando la colazione fu pronta, servita in camera dei figli addormentati e ignari, la poetessa chiuse la porta della cucina dietro di sé. Sigillò ogni apertura con il nastro adesivo per evitare qualsiasi incidente ai suoi bambini, e vestita di tutto punto, nel classico ed elegante stile anni Sessanta, non dimenticando di calzare i guanti alle mani, Sylvia Plath accese il forno, vi infilò la testa dentro, e morì. Il forno, la sua ‘porta’ verso l’aldilà, acquistò valenza simbolica poiché la Plath fu sempre scissa tra la sua natura domestica e accomodante, e quella selvaggia e libera, di donna che provò a rifiutare qualsiasi condizionamento sociale, ingarbugliandosi, invece, sempre più in una vita che soffocò le sue aspirazioni.

Quel giorno riuscì nell’intento così spesso rincorso, negli anni precedenti: non era di certo la prima volta che la poetessa provava a suicidarsi. Quando tentò a ventuno anni, fu salvata e ricoverata; in clinica le diagnosticarono un disturbo bipolare, quella patologia che non permette a chi ne è affetto di gestire normalmente le emozioni, che siano esse positive o negative, condannando il soggetto ad un’eterna altalena umorale, con picchi depressivi e discese catalizzanti. “Mary, è tutto nella tua testa”, dice il padre della protagonista di uno dei suoi primi racconti, recentemente ritrovato e pubblicato, Mary Ventura and the Ninth Kingdom: e della sua testa Sylvia rimase prigioniera, con l’irrimediabile consapevolezza di amare quel demone, che l’accompagnava da sempre.

Sylvia Plath nacque da genitori tedeschi, a Boston il 27 ottobre del 1932; fieramente americana di prima generazione, ma con le radici nel Vecchio Continente, la poetessa iniziò a scrivere fin da subito, incoraggiata dalla madre, una presenza costante e oppressiva. Infatti, la sua prima poesia fu pubblicata che aveva otto anni; poco dopo, il padre sarebbe venuto a mancare improvvisamente, una figura che la donna avrebbe rincorso strenuamente per tutta la sua vita, ricercando quella protezione che, forse, pensava, o sperava, l’avrebbe quietata.

Frequentò una prestigiosa scuola del Massachusetts, lo Smith College, e nel 1953 trascorse un mese a New York per uno stage presso la famosa rivista Mademoiselle: fu allora che affrontò la sua prima crisi depressiva, che rese necessario il ricovero presso il McLean Hospital, dove le diagnosticarono il disturbo bipolare, che fu curato con l’elettroshock. Da questo periodo nacque la protagonista de La campana di vetro, Esther Greenwood, alter ego della Plath che in una pagina significativa del romanzo esterna la sua visione del mondo, il punto di vista di una ventenne degli anni Cinquanta:

Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista […]. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché uno dopo l’altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi

Una donna doveva scegliere, un uomo era libero di abbracciare tutte le sue aspirazioni. A questa conclusione, Sylvia ci sarebbe arrivata poco prima di suicidarsi. Precedentemente, cercò sempre di conciliare quelle due nature dissidenti che le si agitavano dentro, la perfetta casalinga e la poetessa ispirata. Voleva provare ad essere ‘normale’, quella normalità decente che la madre apprezzava.

Con Ted Hughes

La Plath, a causa del ricovero, temette di non riuscire a portare a termine il college, invece si diplomò col massimo dei voti e ottenne anche una borsa di studio, che le permise di trasferirsi in Gran Bretagna per frequentare Cambridge. In Inghilterra conobbe Ted Hughes, anche lui poeta e intellettuale: i due riconobbero subito il forte legame tra loro, e in segreto nel 1956 decisero di sposarsi. Del suo legame con Hughes si è detto molto, alcuni lo definirono malato e dipendente, la donna era sempre alla ricerca di figure maschili forti e accentratrici. La Plath scriveva così al marito, in una lettera: “Credo onestamente che grazie a una qualche mistica unione siamo diventati una sola carne; sono solo malata, fisicamente malata, senza di te. Piango; poso la testa sul pavimento; soffoco, odio mangiare; odio dormire, o andare a letto. Vivo in una sorta di morte in vita”. In un’altra, invece, gli disse: “Semmai ti dovesse accadere qualcosa, mi ucciderei”.

Vissero per due anni negli Stati Uniti, dove Sylvia frequentò dei seminari di Robert Lowell, massimo esponente della poesia confessionale, di cui la Plath diventò interprete, insieme alla sua collega di corso, Anne Sexton. La poesia confessionale, una corrente della contemporanea poesia nordamericana, prediligeva tematiche intimistiche, e il suo principale obiettivo era scandagliare le dinamiche psicologiche dell’autore. In un’intervista del 1962 per la BBC, la stessa Plath spiegò: “Sono scossa e commossa da quel modo nuovo che si è espresso con Life Studies di Robert Lowell, una rottura intensa che apre un’esperienza molto seria, molto personale, emotiva, che è stato in parte un tabù. Le poesie di Robert Lowell sull’esperienza in un ospedale psichiatrico, per esempio, mi hanno incuriosita. Questi argomenti speciali, privati e vietati sento che sono stati esplorati nella poesia nordamericana recente. Penso in particolare alla poetessa Anne Sexton che scrive sull’essere madre, una madre che ha avuto un crollo nervoso, una donna decisamente emotiva e sensibile le cui poesie sono meravigliosamente artigianali, pure, hanno una sorta di profondità emotiva e psicologica che ritengo sia abbastanza nuova ed esaltante”.

Sul finire degli anni Cinquanta, lei e Ted tornarono in Gran Bretagna, dove nacquero i due figli della coppia. Con l’aborto del 1961, sul quale aleggia ancora il sospetto che fu causato dallo stesso Hughes a causa delle percosse subite dalla Plath, il loro rapporto, apparentemente idilliaco, inizia ad incrinarsi. Le cause definitive della fine sono da ricondurre anche alle infedeltà del poeta inglese. Quando Ted lasciò la loro casa, la poetessa scrisse in una lettera: “Ho avvertito un’euforia formidabile; l’ho accompagnato alla stazione con le sue cose, sono tornata a casa, nella casa vuota, aspettandomi di essere abbattuta. Ero in estasi”. Sylvia era libera da quel legame corrosivo, ma evidentemente ciò non le bastò a donarle serenità. Negli anni aveva pubblicato raccolte poetiche come Il Colosso e Papaveri in luglio, a cui sarebbe seguito il suo unico romanzo, La campana di vetro, del 1963, pubblicato un mese prima del suo suicidio. Postumi sarebbero stati curati e dati alle stampe da Ted Hughes, Ariel e Collected Poems, per quest’ultimo la Plath vinse il Premio Pulitzer postumo, unico caso nella storia del riconoscimento.

In Lady Lazarus, uno dei suoi componimenti più famosi, scrisse:

Dying

Is an art, like everything else.  

I do it exceptionally well.

I do it so it feels like hell.  

I do it so it feels real.

I guess you could say I’ve a call.

Morire

è un’arte, come ogni altra cosa.

Io lo faccio in un modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come un inferno.

Io lo faccio che sembra reale.

Ammetterete che ho la vocazione”

Quel demone che lei aveva avuto sempre accanto era la morte: più che un timore per la Plath divenne un’aspirazione. L’11 febbraio, dopo aver scritto la sua ultima poesia, L’orlo, accettò quell’invito, per tante volte rimandato, consapevole di star realizzando il sogno della sua vita. C’è una foto che la ritrae, diciannovenne, biondissima in costume da bagno, con un sorriso stimolato dal mare, da lei molto amato: quella ragazza c’era davvero dentro l’animo della poetessa, ma elesse come suo nascondiglio perpetuo un posto sperduto nella mente della Plath, tra mancanze e nevrosi.

La donna ora è perfetta

Il suo corpo

morto ha il sorriso della compiutezza,

l’illusione di una necessità greca

fluisce nei volumi della sua toga,

i suoi piedi

nudi sembrano dire:

Siamo arrivati fin qui, è finita

Sylvia Plath, L’orlo

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