Anche le parole si consumano col tempo e l’uso

by Davide Leccese
parole

Anche le parole si consumano; l’uso, seguito dall’abuso, spinge il senso autentico delle parole ad assumere significati che, a volte, sono talmente lontani dalla loro origine, da costituirne persino la contraddizione.

Ad esempio, per parlare di parole nobili, “poesia” deriva dal greco poièo, che significa esattamente il contrario della riflessione alta ed emotiva, propria della poesia, come la pensiamo oggi; significa, infatti “il fare”. All’opposto, la parola “tecnica”, che tutti sanno cosa significhi, nasce dal greco tecné, che vuol dire anche creatività.

Come mutano i compagni

L’abbiamo preso alla lontana, per dare un minimo di tono alla nostra riflessione, per andare diritto al cuore della questione: oggi si usano parole e dobbiamo adattarci all’idea che, con il passare del tempo, sono diventate significanti di tutt’altro rispetto all’idea che di esse ci eravamo fatti, a partire dai primi libri di scuola e dalle prime conversazioni famigliari.

Compagno: per noi era una persona con un rapporto relazionale un poco al di sotto della relazione di amico. Insomma, compagno di classe, diverso che “amico del cuore”. Compagno era anche – in situazione politica – chi si ritrovava su posizioni di sinistra, specificatamente comuniste o socialiste. Gli si contrapponeva, come dicevamo, nella relazione tra pari, con un’intensità maggiore, l’amico; ma politicamente il termine “amico” era usato in maniera specifica dai democristiani.

Cum panis

Con il passare del tempo, in ambito partitico, la parola “compagno” è in forte desuetudine mentre anche gli ex comunisti li senti dire “amico di partito”, a meno che non si tratti di coloro che non hanno voluto rinunciare alla connotazione comunista e continuano a far uso, con orgoglio e convinzione, della parola “compagno”. Insomma compagno è, etimologicamente, “colui con cui divido il pane”: considerato che ognuno il proprio pane se lo tiene stretto e qualche altro non ritiene sufficiente il pane senza il companatico, perde peso comunicativo a favore di “amico”, cioè di “colui che non mi mette il sasso nella scarpa”, “che non mi pone ostacoli nel cammino”.

Eppure la parola si è presa la rivincita nelle relazioni affettive, diciamo coniugali. Con l’incremento della convivenza, a tutto danno dei matrimoni (specie se religiosi), lo sposo o la sposa sono diventati “il mio compagno”, “la mia compagna”. In fondo, se chi sta assieme more uxorio e almeno a tavola s’incontra, è effettivamente colui o colei con cui si divide il pane che, parte per il tutto, è il cibo quotidiano.

Ci rammarichiamo un poco, invece, per l’esilio riservato alla parola “fratello”. Se pensiamo che, nei tempi che furono, persino i cugini venivano chiamati “fratelli-cugini”, oggi – fatta eccezione che nello stretto uso religioso ufficiale – la parola “fratello” è diffusa, come saluto, molto tra gli afro-americani che ne fanno una sorta di emblema comunicativo simpatico e affettuoso.

La leggerezza d’uso

Sociologicamente alcuni interpretano tale leggerezza d’uso con l’indebolimento dei vincoli parentali; è vero, infatti, che per molti giovani contano più le relazioni amicali che quelle familiari perché le prime rappresentano una scelta mentre le seconde costituiscono una sorta di vincolo biologico.

Sarebbe estremamente utile rimettere ordine nell’uso delle parole, anche per porre un freno al dilagante fraintendimento che oramai esiste nella conversazione quotidiana, proprio oggi che diciamo di essere collocati nella società della comunicazione.

Retorica parolaia

Alcuni usano termini di cui non sanno neanche il significato. Come potrà dimenticare – nella mia carriera di esaminatore – quella candidata che, parlandomi dell’Ermenganda manzoniana, mi riferire che “….era stesa sul letto di morte con il volto diafano e diuretico”. Alla mia domanda se sapesse cosa significasse “diuretico”, mi rispondeva che non lo sapeva precisamente ma che “suonava bene”!

Maestri della retorica parolaia risultano essere, ancora una volta, proprio i politici (almeno quelli un poco istruiti): un nostro Primo Ministro degli anni ’70, interrogato da un giornalista sull’aumento della disoccupazione, rispondeva che quelli non erano disoccupati, ma quella era “mano d’opera disponibile”.

Purtroppo anche la scuola ha le sue responsabilità nell’educazione all’uso delle parole; non ha saputo, infatti, contrastare – in maniera forte e incisiva – il dilagante e scandaloso fenomeno della lingua televisiva e cinematografica: lingua banale, ripetitiva, spesso volgare, sicuramente di basso profilo sia dal punto di vista culturale che relazionale.

I giovani, caduti nella trappola dell’imitazione del personaggio del giorno, non solo diventano brutte copie dei gesti ma anche pessimi ripetitori della lingua. Provate, infatti, ad analizzare – superando la vacuità generale delle risposte – l’uso dei termini di certi intervistati; noterete che alle spalle riappare il fantasma sbiadito di questo o quel persona-oggetto alla moda.

A quest’uso sciatto della lingua fa da contraltare – non meno fastidioso, a volte – l’eccessivo uso del linguaggio settoriale o di professione: avvocati, medici, tecnici in genere, dimenticando che non sempre parlano a colleghi, si esprimono “in gergo di mestiere” e sciorinano paroloni che solo nella ristretta cerchia degli addetti al lavoro assumono un significato preciso. Insomma ci troviamo di fronte all’effetto “Azzeccagarbugli”, l’avvocato manzoniano che, per mettere in crisi il povero Renzo, sforna tutto lo scibile noioso del latinorum giuridico.

Gli anglismi/americanismi

Concludiamo con gli americanismi: che senso ha rinunciare alla nostra bella lingua italiana per ripetere ok, yes, fashion, devolution, party, summer card, player, news e parole come queste? Alla base ci sono una sicura pigrizia verbale e qualche cedimento alle leggi di mercato. Italianizzare per forza, come impose il Fascismo, è ridicolo; ma americanizzare per abitudine è stupido.

La semplificazione della lingua amministrativa e burocratica: la Legge Bassanini ha tentato, senza riuscirci del tutto, a spingere i burocratici a far uso di una lingua per la gente comune ma resistono reticoli forti, sia per astuzia sia per pigrizia, che tengono legata la lingua dei moduli e delle comunicazioni pubbliche a termini astrusi e di difficile comprensione. Sta scomparendo, ad esempio, obliterare il biglietto, ma – specie nel linguaggio militaresco, resistono parole come attenzionare; come se non bastassero i verbi che abbiamo, si sta creando la stranissima abitudine di trasformare in verbo gli oggetti; nascono così melonare (accarezzarsi su tutto il corpo), bananizzare (spogliare un poco alla volta), caseggiare (riunirsi a casa di…). Morale della favola: se non ha più senso invitare queste persone a parlare “come ti ha fatto mamma”, che almeno si sforzino di parlare in modo da capirsi e da farsi capire da coloro cui intendono rivolgere la parola. by Davide Leccese

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