Giulia De Marco e la setta della carità carnale

by Eugenio D'Amico

Qualche decennio dopo la chiusura del convento di Sant’Arcangelo a Baiano, Napoli è sconvolta da un altro scandalo a sfondo religioso che esplode in una città in cui si scontrano e si contraddicono i rimorsi della Controriforma che però sfociano spesso in una religiosità bigotta e di facciata, e lo spirito libertino e libertario di un popolo ancora inconsapevolmente pagano.

Nei circa centocinquanta conventi e monasteri e nelle oltre cinquecento chiese che punteggiano la città, ma anche nelle cappelle private e nelle abitazioni dove sono accolte e venerate le monache di casa, si mescolano fede e agnosticismo, peccato e pentimento, devozione e superstizione, e in questo clima nasce e prospera una strana confraternita, o piuttosto una setta, che ruota intorno alla figura di suor Giulia De Marco, da tutti a Napoli ritenuta santa per la sua carità e per la sua devozione.

I fatti sono raccontati in un manoscritto custodito negli archivi della Biblioteca Nazionale di Napoli, e la cronaca, che però appare malevola e di parte, ha fatto pensare a misteriose possessioni diaboliche ma anche a un ritorno ai riti pagani di prostituzione sacra collegata agli antichi culti praticati nella Crypta neapolitana che forava Posillipo o nelle grotte platamonie che punteggiavano la collina di Pizzofalcone, mai del tutto abbandonati.

Di Giulia De Marco sappiamo solo che era giunta a Napoli dal Molise dopo la morte dei genitori adottivi per essere accolta da una parente, e che a Napoli aveva avuto un figlio illegittimo abbandonato nella Ruota dell’Annunziata. Forse proprio a seguito del trauma dovuto all’abbandono del figlio, la donna cominciò ad avere visioni mistiche e si votò alla Chiesa divenendo terziaria francescana. Nel 1605 ebbe un nuovo padre confessore, padre Aniello Arcieri di Gallipoli, giovane di bell’aspetto e di fascinosa eloquenza con il quale entrò sempre più in confidenza. Padre Aniello, forse legato alla setta eretica dei Sociniani, seppe profittare dell’esaltazione mistica della donna per convincerla di essere la prescelta per un nuovo modo di intendere la religione che prendeva alla lettera l’insegnamento “Amatevi gli uni con gli altri” per cui il rapporto sessuale non era peccato, ma al contrario cancellava ogni colpa e provocava una forma di estasi che creava una via diretta a Dio.

I due divenuti amanti conobbero poi Giuseppe De Vicariis, giovane avvocato furbo e dotato di malefica eloquenza, che abbracciò con entusiasmo le eresie di padre Aniello, vedendo in esse un’occasione di arricchimento. Nacque così la Confraternita della Carità Carnale in cui proprio il congiungimento carnale con suor Giulia, in quanto santa,  sostituiva la preghiera ed era atto di carità che permetteva di raggiungere Dio. Può sembrare incredibile ma le strampalate ed eretiche tesi di padre Aniello ebbero una immediata diffusione non solo tra il popolo ma anche, e forse soprattutto, tra il clero e la nobiltà di spada e di toga del Viceregno.

Divennero seguaci di suor Giulia quasi tutti i membri della corte spagnola a Napoli a cominciare dal Vicerè Conte di Lemòs e, soprattutto, dalla contessa Caterina de Sandoval, sua moglie, e molti alti prelati, e un folto gruppo di monaci e monache dei diversi ordini. Il Reggente del Consiglio Collaterale che era il supremo consiglio del vicereame, dette alla confraternita l’uso di palazzo Orsini di Gravina in via Monteoliveto, dove ora si trova la facoltà di architettura, e qui in una serie di stanze più meno segrete i «figli spirituali» di suor Giulia al di sotto dei venticinque anni  si incontravano con la “Madre” e le altre devote, mentre gli uomini al di sopra dei venticinque anni si riunivano in una stanza dedicata esclusivamente alla preghiera

I primi problemi sorsero quando, nel 1606, l’inquisitore locale, il domenicano Deodato Gentile, vescovo di Caserta, apre un’inchiesta sulla terziaria francescana per i suoi presunti doni di chiaroveggenza e profezia, e la “Madre” viene allontanata da Napoli. Al suo rientro in città, nell’estate del 1611, tuttavia è accolta trionfalmente da popolo e nobili. Ricomincia così l’attività della confraternita che questa volta, però, trova sulla sua strada un’altra mistica napoletana in odore di santità, Suor Orsola Benincasa che dal suo eremo sul Vomero si scaglia contro l’eretica provocando l’intervento dei potenti Teatini di San Paolo Maggiore che, grazie alle confessioni di una monaca pentita, si convincono dei poteri diabolici di suor Giulia.

La monaca per difendersi ricorre ai Gesuiti, altrettanto potenti a Napoli, e allo stesso Vicerè che minaccia addirittura l’espulsione dei Teatini dalla città. I seguaci della “Madre” tumultuano nelle vie contro i Teatini e l’Inquisizione, e la monaca che aveva rivelato i segreti della confraternita viene uccisa in un agguato. Lo scontro tra i due potenti ordini religiosi provoca l’intervento diretto della Santa Sede ed il Nunzio Apostolico a Napoli dà l’ordine di arrestare Suor Giulia vedendo nei suoi comportamenti e in quelli della setta chiari segni di possessione diabolica. Per evitare tumulti popolari la monaca e i sui complici vengono tradotti a Roma di notte e qui, di fronte al Tribunale dell’Inquisizione confessano la loro eresia. E’ la fine della confraternita.

La mattina del 12 luglio 1615 nella chiesa romana di Santa Maria alla Minerva, Suor Giulia, padre Aniello e l’avvocato De Vicariis fanno pubblica abiura che ripeteranno meno di un mese dopo nella Cattedrale di Napoli, prima di essere riportati a Roma e rinchiusi in Castel Sant’Angelo dove finiranno i loro giorni. Per i loro adepti pentiti, molti di loro troppo potenti per essere perseguiti, un decreto di amnistia chiuderà la vicenda e sulla Confraternita caleranno il silenzio e l’oblio, lasciando il dubbio se la setta sia stata una delle tante sette eretiche che nell’età della Riforma minavano la Chiesa, o piuttosto un ingegnoso meccanismo di potere creato da tre mistificatori che approfittavano della credulità altrui per arricchirsi e, soprattutto, per consolidare la propria influenza.

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