Volontariato: si può, si deve, purché non sia “carità pelosa”

by Davide Leccese
volontariato

La parola “volontariato” ha un non so che di obbligatorio; obbligatorietà che viene espressa non da una coercizione esterna ma da una sorta di moto dell’anima “contro” – prima – una società che trasforma tutto in mercato, in oggetti da contrattare, in nome di un liberismo economicistico sfrenato e incontrollato (di cui stiamo pagando le conseguenze con questa crisi mondiale dell’economia, grazie anche a una malintesa globalizzazione); “a favore” – poi – di quanti, schiacciati da una pressante “quantificazione della vita”, si trovano ingabbiati in una povertà che non è solo carenza di mezzi di sussistenza ma soprattutto di dignità sottratta.

Senza voler fare i disfattisti di circostanza, a nulla vale che in una legge – la n. 266 del 1991 – si sia voluto stabilire una sorta di tutela giuridica al “Terzo Settore” e alle organizzazioni che non rispondono alle logiche del profitto o del diritto pubblico. Dove non può o non interviene, per scelte malsane, proprio il “pubblico”, interviene il privato associato che si qualifica, quindi, in sostituzione, come altruistico a tutto tondo, determinato – nel rispetto della Costituzione – a dare priorità a chi ha più bisogno ed è più dimenticato, a chi presenta limiti e privazioni di ogni genere e non rientra nelle pieghe di una burocrazia asettica e qualche volta insensibile.

Per certe ragioni è anche giusto e opportuno che la mano pubblica non intervenga, anche per sollecitare l’azione del singolo che si mobilita in nome di una sensibilità sociale ed etica, fatta di solidarietà non solo emozionale, che qualifica la comune convivenza civile di un popolo. Ma l’azione dei singoli o l’intervento di un gruppo non autorizza lo Stato – o le sue emanazioni – a far finta di niente o, peggio ancora, a emanare leggi sostanzialmente liberticide, fatte a tutto vantaggio di chi sta bene, di chi appartiene a categorie protette, di chi se ne infischia di chi soffre o ha bisogno.

Abbiamo anche, purtroppo, la cosiddetta “carità pelosa” e la manifestazione vanagloriosa del proprio (apparente) dedicarsi agli altri. Quelli che si fanno circondare dalla claque tutte le volte che, vestiti gli abiti dell’altruismo, accarezzano i piccoli, sorridono agli indigenti e si mettono i guanti, come faceva quel re francese, tutte le volte che doveva stringere la mano a un suddito. Penso proprio ad alcuni – personaggi anche della nostra città – che cambiano abito nella stessa giornata: dimessi in mezzo alla gente, per poi correre subito a casa per l’abito di gala, adatto ai “salotti-bene”, arrochiti dal grido “Viva il popolo”, prima, e sommessi nelle conversazioni dotte e schizzinose, poi.

Quindi, gli imbroglioni: alcuni programmi televisivi (Vedi “Striscia la notizia) hanno smascherato alcuni personaggi, anche famosi, che – etichettatisi come benefattori – hanno spillato soldi non solo ai gonzi ma anche a ignari e onesti cittadini, chiamati a contribuire per raccolta-fondi a tutto favore delle tasche di questi mariuoli patentati.

Per dare dignità al Volontariato va sgombrata la mentalità consolatoria e pietosa che circonda – con pericoloso fraintendimento – l’azione dell’associazionismo altruistico: la dignità degli assistiti e dei beneficiari d’intervento poggia sulla dignità della persona e del cittadino, titolari di un principio secondo cui non si deve chiedere per favore ciò che spetta come diritto.

Né l’azione surrogatoria del volontariato esime le pubbliche autorità dall’impegnarsi nel campo dei bisogni primari della gente: il sostegno all’azione dei volontari, anzi, diventa occasione di esame di coscienza delle inadempienze e determinazione d’intervento con chi, in attesa della ri-sensibilizzazione del pubblico amministratore, è sceso in campo e si è “dato da fare”.

La molla che stimola l’azione libera e gratuita del volontariato è la stessa che regola, o dovrebbe regolare, la relazione democratica: la solidarietà, la convivenza eticamente impostata sul beneficio di tutti a seconda dei diritti e dei bisogni. Principio, questo, teoricamente ineccepibile ma praticamente sconvolgente: in un contesto di “furbi”, di gente che non solo costruisce le sue fortune a danno delle esigenze primarie degli altri, in un contesto di economia che amplia a dismisura il superfluo soffocando in esso il necessario, non è raro incappare in situazione equivoche e conturbanti: chiedere che si rispettino i diritti senza dimostrare voglia di partecipazione al superamento del proprio bisogno.

Ecco che allora il volontariato diventa educazione alla responsabilità, assunzione di ruolo sociale.

La scuola, la famiglia, la città “educativa” hanno, come compito primario, proprio puntare sulla consapevolezza che, dedicarsi agli altri, non è un di più della vita civile ma connota proprio la convivenza pacifica, stabilisce premesse culturali che ostacolano i conflitti, grandi o piccoli che siano.

Se solo pensassimo che alcune manifestazioni di criminalità o di devianza giovanile hanno la loro radice proprio in una insensibilità diffusa al rispetto degli altri, alla tutela del debole e hanno il loro punto-forza nella convinzione che solo il gesto eclatante e violento – non importa se raccapricciante – è affermazione del proprio sé, allora comprenderemmo come la nostra società stia sul crinale dell’inciviltà e dell’antidemocrazia.

Il volontariato, quindi, svolge due compiti paralleli: da un lato scende in campo con azioni concrete e produttive, totalmente gratuite, a favore dei deboli e dei bisognosi; dall’altro agisce a lungo raggio a tutela della società “migliore”, in aperta lotta contro ogni forma di sottintesa o esplicita negazione del valore democratico del vivere civile.

Davide Leccese

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