“C’è sempre una narrazione differente delle donne in politica”. L’intervista alla prof Francesca Romana Recchia Luciani

by Michela Conoscitore

Il Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, che da nove anni si tiene a Bari, sarebbe dovuto partire lo scorso 2 aprile, un appuntamento rilevante e unico in Italia, che vede coinvolti il Dipartimento di Studi Umanistici e il Centro Interdipartimentale di Studi sulle Culture di Genere dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. La nona edizione del Festival è stata posticipata, comprensibilmente, vista la pandemia da Covid-19 ad ottobre-novembre, quindi si tratta solo di attendere un po’. Ideatrice e direttrice del Festival è la professoressa Francesca Romana Recchia Luciani, Ordinaria di Storia della Filosofia Contemporanea e di Saperi di Genere e responsabile della linea d’azione relativa alle questioni di genere dell’Ateneo barese.

bonculture ha intervistato la professoressa Recchia Luciani per farsi anticipare i contenuti e le tematiche che verranno affrontate durante la nona edizione del Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, e per discorrere con lei su altre questioni di pressante attualità, inerenti alla percezione delle donne nella società italiana contemporanea.

Professoressa, quale sarà il tema della nona edizione del Festival delle Donne e dei Saperi di Genere?

Ogni anno il Festival è dedicato ad un’autrice o a un tema. Quest’anno abbiamo individuato il tema Femminismo Antirazzista perché fino a due mesi fa la tematica più urgente era quella dell’attacco ai migranti e ci pareva necessario discutere delle dinamiche di ospitalità e accoglienza. Era un continuo dibattere su inclusione ed esclusione, quindi dato che il Festival ha una vocazione filosofica e teorica, e ha il primato di aver individuato questioni su cui riflettere con largo anticipo, soprattutto se possiedono una dimensione concettuale, per la nona edizione siamo partite dall’idea di far incontrare per la prima volta dal vivo le autrici dell’antologia Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, edito dalla casa editrice effequ, che sono tutte afro-discendenti italiane. Con l’aiuto e la complicità della casa editrice, siamo riuscite ad invitare tutte le scrittrici del libro per il Festival, fissato per il 4 aprile, e con loro ci sarebbe stata una performer francese, Rébecca Chaillon che si occupa degli stessi temi. Altro appuntamento interessante sarebbe stato quello del 17 aprile con la regista francese Amandine Gay, che ha collaborato con Chaillon, e di cui sarebbe stato proiettato il documentario Ouvrir la voix.

Quale sarà l’obiettivo del loro incontro?

L’idea è quella di far incontrare queste donne afro-discendenti italiane con la francese Rébecca Chaillon per paragonare esperienze di resistenza afro-femminista nelle società contemporanee. Italia e Francia sono accomunate dalle stesse discriminazioni, purtroppo. Ci interessa mettere in evidenza che il colore della pelle delle donne implica immediatamente un doppio stigma: da una parte quello razzista, e dall’altra lo stigma di genere. Questo intreccio tra sessismo e razzismo ci è sembrato molto rilevante. Il Festival dello scorso anno era dedicato alle Intersezioni, il nostro sguardo è sempre intersezionale, coglie il luogo dove si intrecciano discriminazioni multiple: di razza, di genere, ma anche di classe, di ceto, con la povertà che l’epidemia sta facendo diventare un’emergenza ancor più grave, altro elemento potente di esclusione, marginalizzazione e di disagio sociale. Tutti questi appuntamenti speriamo siano solo rimandati all’autunno.

All’interno del Festival, quali altre tematiche saranno analizzate?

Abbiamo invitato la sociologa italiana Sara Farris, che insegna a Londra e ha coniato la parola femonazionalismo: indica tutte quelle strumentalizzazioni che da destra, la parte più conservatrice della rappresentanza politica, utilizzano il femminismo in chiave anti-islamica o come una forma di edulcorazione del razzismo. È abbastanza significativo che molti partiti di destra europei siano rappresentati da donne, come Giorgia Meloni o Marie Le Pen. Ciò sembra voler dire che le destre hanno accettato la presenza femminile in politica, ma non è così, è piuttosto un fenomeno simile al pinkwashing, è un modo per occultare delle discriminazioni che dà come risultato il loro rafforzamento. Un’altra collaborazione a cui tengo molto è quella con CoReCom Puglia.

In cosa consisterà?

Saranno quattro gli appuntamenti con il CoReCom perché ci interessa molto il linguaggio che si utilizza nei mezzi di comunicazione, e quanto è importante che su giornali, in TV o altri media siano recepiti questi cambiamenti linguistici, che poi in fin dei conti sono sempre cambiamenti culturali. Per esempio, se si continuano a descrivere i femminicidi sempre allo stesso modo, cercando motivazioni e giustificazioni per scusare o per nascondere e non ragionare sulle radici della violenza maschile, vuol dire che una certa sensibilità nella comunicazione non è stata recepita. Il primo dei temi che affronteremo col CoReCom è quello della discriminazione legata all’età, ovvero l’ageismo, di cui discuteremo con Lidia Ravera: le donne dopo i cinquant’anni scompaiono dai mezzi di comunicazione, devono essere belle e giovani perché altrimenti non sono interessanti. Così facendo non si dà alcun valore alla loro esperienza, anzi si tratta di un processo di letterale invisibilizzazione. Il secondo appuntamento è dedicato a Nilde Iotti, nel centenario della sua nascita: in collaborazione con la Fondazione che porta il suo nome, abbiamo intenzione di ricordarla e, al contempo, di parlare di come la politica delle donne è (non) comunicata soprattutto sui media di massa. Della Iotti ricordiamo che è stata la prima presidente della Camera dei Deputati, una grande politica, ma quel che viene sempre evocato è soprattutto lo scandalo suscitato della sua relazione con Togliatti. Ciò dimostra che delle donne attrae la narrazione della loro vita privata, mentre degli uomini politici ci si accontenta per lo più dell’agire pubblico. Ora, se è vero che le donne sono da sempre più attente alla sfera privata della loro esistenza, consapevoli dell’intreccio inestricabile pubblico-privato, troppo spesso questo aspetto viene strumentalizzato e, insieme al pettegolezzo, cresce anche lo stigma rispetto alle loro scelte. Per cui, se non sono mogli e madri si giudicano le loro scelte private come se fossero un argomento di dominio pubblico. Agli uomini, invece, è concesso pure ‘sviare’. C’è sempre una narrazione differente per le donne in politica.

Professoressa, vedo che gli ultimi due appuntamenti tratteranno temi ancora più stringenti e attuali…

Durante gli altri due appuntamenti parleremo del movimento #MeToo, dei ruoli e della rappresentazione delle donne nella TV italiana. Il #MeToo in America ha prodotto delle conseguenze enormi, in Italia tutto si è rivoltato contro Asia Argento, esposta alla pubblica gogna, mentre il regista Fausto Brizzi è stato assolto da ogni accusa. Non comprendendolo come fenomeno collettivo e potenzialmente rivoluzionario, i media italiani hanno raccontato il #MeToo solo per sminuirlo e rivittimizzare chi aveva subito molestie. Mentre, nel quarto e ultimo incontro parleremo della narrazione alterata delle donne nella TV italiana, soprattutto in un certo tipo di televisione, mi riferisco a trasmissioni come Amore Criminale dove il femminicidio passa come il possibile esito di una relazione amorosa mentre si ignora completamente la violenza sottile e quotidiana che spesso le donne non sono nemmeno in grado di riconoscere. La narrazione che viene fatta dell’amore è quasi sempre tossica, per esempio, la gelosia maschile non è solo tollerata ma esplicitamente incoraggiata, in nessun caso si induce a conoscere e controllare questi sentimenti negativi ed estremamente dannosi e limitanti nelle relazioni.

Ricollegandomi alle tematiche che affronterete durante il Festival, Professoressa le chiedo qual è lo ‘stato di salute’ del femminismo contemporaneo in Italia?

Il femminismo in Italia si è riattivato moltissimo. Negli ultimi dieci anni si è fatto molto, il nostro Festival compie quest’anno nove anni, e sta a significare che abbiamo precorso i tempi perché è stata una delle prime manifestazioni dichiaratamente femministe nel nostro Paese. Io stessa appartengo ad una generazione intermedia, quindi non quella del ‘vecchio’ femminismo degli anni Sessanta-Settanta, e nemmeno quella delle giovani generazioni, a cui insegno all’Università. La mia generazione si era un po’ adagiata perché dopo le grandi conquiste del divorzio e dell’aborto, sembrava che esse non dovessero essere più messe in discussione. In realtà, la legge sull’aborto viene quotidianamente minacciata dall’obiezione di coscienza, tanto da essere diventato molto difficile, se non impossibile, abortire in alcuni ospedali. A ciò si sono affiancate le battaglie per i diritti civili e per il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, sia per le unioni di conviventi eterosessuali che omosessuali. Questa doppia sfida, difendere la legge 194 e combattere per le unioni civili, ha re-innescato e intrecciato i movimenti, stimolati anche dal Non Una di Meno sudamericano, che è stato davvero decisivo. Il movimento è nato soprattutto per contrastare la violenza sulle donne che in America Latina, ma comunque un po’ in tutto il mondo, è enormemente diffusa, ma poi si è ampliato in chiave transnazionale e transfemminista. Il nuovo femminismo è infatti anche intersezionale, ovvero pone l’attenzione sulle discriminazioni e sulle loro sovrapposizioni, e si definisce transfemminismo perché non lotta soltanto per i diritti delle donne, ma per le istanze di tutte le identità e gli orientamenti sessuali diversi dal binarismo eterosessuale. Mostra l’importanza di cercare alleanze perché la lotta va condotta tutti e tutte insieme contro il nemico comune, il patriarcato, che pretende di imporre, con la violenza più o meno esplicita, le sue primitive regole sociali e morali soffocando la libertà e le scelte personali.

Cosa pensa delle cosiddette ‘quote rosa’?

Le quote rosa sono state molto utili, in un Paese retrivo e resistente ai cambiamenti come il nostro, soprattutto in una determinata fase: hanno aperto spazi politici e manageriali che prima erano preclusi alle donne, penso alle quote rosa nei CdA delle aziende. In certi frangenti le quote rosa sono molto importanti: per esempio, se le quote rosa fossero state regolamentate, nella task force del Governo per combattere il Covid-19, non ci sarebbero state solo quattro donne su diciotto componenti. Le quote rosa sono utili in nazioni vecchie come l’Italia perché costringono, sulla base del fondamentale principio costituzionale dell’uguaglianza, a riconoscere la parte del paese maggioritaria, ma meno considerata. In altro senso, però, le quote rosa sono rischiose poiché implicano il coinvolgimento femminile non per merito ma per il già citato pinkwashing, un falso e ipocrita riconoscimento. Le quote rosa vanno usate con intelligenza, possono servire per introdurre lavoratrici e professioniste in campi da cui sono tendenzialmente escluse, ma non sono dirimenti come tali nel riconoscere la specificità di una politica per le donne. La situazione italiana è significativa: la verità è che non si vogliono riconoscere le donne capaci e competenti perché gli uomini temono di perdere larghe fette di potere, e sappiamo che il ceto politico italiano non è lì per merito e competenze.

In una recente intervista al Corriere della Sera, l’ex ministra Paola Severino ha affermato che gli uomini dovrebbero stimolare e non ostacolare le donne nei propri percorsi lavorativi. Lei stessa, in un’intervista al TG Regionale, ha affermato che il femminismo tornerebbe utile anche agli uomini. Può spiegare queste posizioni?

Sicuramente se la Severino ha raggiunto i risultati che ha raggiunto lo deve anche alla rivoluzione femminista, la più grande rivoluzione del Novecento che ha cambiato la società senza spargimenti di sangue. Senza di essa non ci sarebbero nemmeno quelle poche donne che ricoprono ruoli apicali in Italia. Il femminismo ha esercitato un’enorme pressione sulla società, affinché alle donne venisse riconosciuto il loro ruolo. Cosa che non accade facilmente perché il patriarcato resiste strenuamente a questa pressione. Il femminismo fa bene a tutti, lo dico da sempre. Le giovani generazioni stanno cambiando, intendo uomini e donne che sono molto diversi e diverse da madri/padri e nonne/nonni. Oggi agli uomini si chiede un radicale cambiamento, e quelli con una maggiore sensibilità hanno capito che un allentamento delle costrizioni patriarcali sarebbe una conquista anche per loro: l’esempio canonico è che volendo possono abbandonare il ruolo del maschio dominante, non tutti gli uomini vogliono esserlo, anche quello è un cliché. Il femminismo, che è la più grande battaglia umana contro gli stereotipi, è un vantaggio anche per quegli uomini che rifiutano un ruolo di genere che non hanno scelto. Non so se l’ex ministra Severino ha fatto quell’affermazione perché magari voleva spingere alla riflessione gli uomini, ma non è così che si ottiene. Otterremo di più se continueremo a fare una grandissima pressione dal basso con manifestazioni, conferenze, festival, con la nostra presenza sul lavoro. Io sono ordinaria all’Università e il mio è stato un lungo percorso, ma quante sono oggi le donne che lavorano negli atenei italiani avvertendo la fatica nel raggiungere risultati e ricoprire ruoli importanti? Anche se la base dell’università italiana è femminile, le donne rettrici in Italia sono pochissime, se ricordo bene soltanto due. Ma questo accade in tutti gli ambiti professionali, come insegna la teoria del “tetto di cristallo”.

Mentre mi documentavo sulle domande da porle, ho visionato una sua conferenza tenuta a Genova sul tema “Il sesso come esperienza di felicità”: nel corso del dibattito, lei ha affermato che la nostra società è profondamente erotizzata, e il corpo, soprattutto quello femminile, è visto come merce di consumo. Perché è accaduto questo?

Questo è un altro aspetto molto importante, perché la rivoluzione femminista è stata anche una rivoluzione sessuale. Il femminismo degli anni Sessanta e Settanta ha messo in evidenza il nesso mefitico tra patriarcato e religioni monoteiste, come il Cattolicesimo o l’Islam, che sono sessuofobiche e contro le donne: al corpo femminile vengono assegnati due compiti possibili, quello di procreare e quello di dare piacere agli uomini. Uscire da questi altri due grandi stereotipi è stata una conquista del femminismo: esso ha innanzitutto valorizzato il compito riproduttivo, affermando che le donne non sono delle macchine per la riproduzione ma sono le indiscusse protagoniste di questa esperienza fondamentale per l’umanità; allo stesso tempo, il femminismo ha rifiutato però che le donne venissero inchiodate unicamente al ruolo materno. Per troppo tempo ci è stato raccontato che potevamo realizzarci nella professione, ma sarebbe stato meglio per noi e per la collettività realizzarci come madri. La sessualità, invece, è parsa per millenni esclusivo appannaggio degli uomini: loro avevano a disposizione intere ‘praterie’ di corpi femminili, però passivi. Quindi non era nemmeno riconosciuto il piacere femminile, sono state le femministe che hanno indicato i nostri luoghi del piacere, non identificabili con quelli maschili, perché il corpo femminile ha le sue specificità. Pian piano questi cambiamenti sono entrati nella mentalità comune, anche se talvolta addomesticati dal patriarcato che preferisce erotizzare la società a modo suo, oggettivando le donne. Riprendo, per esempio, il concetto di cui abbiamo parlato prima, quello dell’ageismo, che stabilisce che le donne devono possedere certi canoni di bellezza che sono stati stabiliti altrove, non certo da noi, e contemporaneamente devono essere sempre disponibili. Oggi in proposito si parla di capitale sessuale, il corpo femminile è allora un capitale da spendere, naturalmente ciò ha poco a che fare col femminismo perché pur puntando sulla centralità del corpo e dell’eros, lo usa a esclusivo vantaggio del patriarcato perseguendo un discorso economicistico. Dice: “tu puoi fare del tuo corpo quello che ti pare, non solo scegliendo la prostituzione, ma anche rendendoti gradevole per ottenere una promozione sul lavoro”. L’unica possibilità che abbiamo è quella di riappropriarci di questi argomenti per ridargli il giusto significato.

Professoressa le chiedo un suo pensiero sull’ultimo decreto del governo riguardante la Fase 2 per il contenimento del Covid: il termine usato nel decreto, per regolamentare gli incontri con i propri cari, è quello di ‘congiunti’. È scoppiata, giustamente, una polemica perché questo termine esclude moltissime importanti relazioni presenti nella vita delle persone. Il governo, così, ha aggiustato il tiro, e ieri ha parlato di ‘affetti stabili’. Cosa ne pensa in merito?

Come al solito il linguaggio dice molto più di quello che sembra, i significati risuonano profondamente nella mentalità collettiva. Il termine “congiunti” richiama più la famiglia tradizionale, ma esistono anche i legami riconosciuti e quelli non formalizzati. Il governo ha messo una toppa su un’espressione che non era felice, perché è un termine ambiguo e che richiama situazioni standardizzate. Tale termine non lascia spazio alle infinite relazioni che le persone hanno tra loro. Poi hanno usato il binomio “affetti stabili”, e hanno precisato che l’amicizia non rientra tra questi: ma che razza di precisazione è? L’amicizia non è un affetto stabile? Lo Stato deve rinunciare ad essere etico, nel senso di dirci come ci dobbiamo comportare. Piuttosto dovrebbe prendere atto che le relazioni possono essere di molteplici tipologie, anche incatalogabili, inimmaginabili. Esiste un modo nuovo di inventare le relazioni che non è codificato e codificabile.

Io aggiungerei nemmeno quantificabile…

Tanto meno. È un bene che ci sia stata questa sollevazione, affinché funga da sollecitazione al legislatore a prendere atto che esistono infiniti mondi affettivi di cui non conosce nemmeno l’esistenza. Certo, la situazione che stiamo vivendo è estrema, due mesi fa mai avremmo immaginato una condizione simile, quindi tanta impreparazione è anche determinata dal fatto che stiamo vivendo qualcosa di inedito, è anche però il segnale dell’assoluta inattualità di chi ci governa con strumenti vecchi e incastrati nelle tradizioni. Molte persone invece, e per fortuna, si sono allontanate dalle tradizioni, soprattutto nelle loro vive relazioni, negli affetti concreti, nella rete complessa e non scontata dei rapporti. La società molto spesso, anzi quasi sempre, è molto più avanti della politica.

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