Bettino Craxi, il film “Hammamet” e la storia monocolore

by Enrico Ciccarelli

Credo che andrò a vedere “Hammamet” solo per seguire la prestazione attoriale del nostro conterraneo Pierfrancesco Favino, che sento definire di mostruosa bravura. Altri inevitabili contenuti mi interessano meno, a cominciare dalla insulsa polemica della “riabilitazione” di Craxi e della sua parabola politica (che il film peraltro credo ignori, essendo dedicato al “triste, solitario y final” momento esistenziale di un uomo morto in esilio dopo avere visto distruggere tutto ciò in cui aveva creduto).

Non sono mai stato craxiano: come molti Italiani guardavo con fastidio a quest’uomo scostante ed eretico che sfidava le consolidate ortodossie della Prima Repubblica. Era stato messo alla guida del Psi da una malaccorta congiura di Giacomo Mancini contro Francesco De Martino all’hotel Midas (si sa: i democristiani complottavano nei conventi, i comunisti nei discreti anditi di Botteghe Oscure, i socialisti negli alberghi di lusso).

Socialista di rito ambrosiano, nenniano, considerato fino ad allora un indolente comprimario, fu catapultato nello scenario più bipolare del dopoguerra (nel 1976 Dc e Pci insieme allibravano quasi il 75% dei voti), con l’Italia scossa dal terrorismo e dallo scandalo Lockeed, che di lì a poco costrinse ingiustamente alle dimissioni il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Mostrò subito grande dinamismo tattico e una buona dose di coraggio contro il conformismo da compromesso storico che caratterizzava il discorso pubblico.

Il sequestro Moro, il punto più buio della notte della Repubblica, gli fornì modo di schierarsi con il partito della trattativa. Si capì anche da questo l’ambizione del leader socialista di giocare un ruolo indocile sia nel quadrante interno che in quello internazionale. Il guanto di sfida al Pci berlingueriano mosse dalle basi ideologiche: in un memorabile saggio pubblicato dall’Espresso (quantum mutatus ab illo!) propone non solo l’accantonamento di Lenin, ma anche il ridimensionamento dello stesso Marx, a cui affiancò l’utopista francese Charles Proudhon.

Parole e concetti da tempo banditi dal vocabolario e dall’immaginario della sinistra, come presidenzialismo e patriottismo, vi fecero prepotentemente ritorno, e consistenti pattuglie di pensatori non allineati provenienti dai sommovimenti del Sessantotto e del Settantasette trovarono in casa socialista un rifugio accogliente dai plumbei conformismi del Pci. Era certo la corte di nani e ballerine stigmatizzata da Rino Formica, ma anche un salutare bisogno di rinnovamento dell’Italia bigotta e controriformista, rinnovamento che aveva per casuali o naturali alleati i radicali di Marco Pannella e le tv di Silvio Berlusconi  e per naturali nemici il potere immobile dei cattocomunisti e delle corporazioni, da quella dei boiardi di Stato a quella dei giudici a quella dei giornalisti.

Gli anni del Governo, acme del potere craxiano, furono esemplari di questo rinnovamento: l’esplosione del debito pubblico si accompagnò a un forte aumento della prosperità del Paese, alla Milano da bere, alla sfida aperta ai santuari del sindacato, con il tramonto della scala mobile, con la Cgil che si impegnò in una sciagurata e antistorica battaglia referendaria meritatamente persa. Un’Italia in cui venivano sdoganati l’arricchimento, il consumismo e la speculazione in Borsa.

Fu un’onda lunga di modernizzazione. Everardo Della Noce, referente televisivo per le notizie di Piazza Affari, divenne popolare come Pippo Baudo, la tv si riempì di maggiorate del Drive In, Silvio Berlusconi, anche con il decisivo aiuto di Craxi, lanciò alla Rai la sfida di sottrarle Mike Buongiorno e il Mundialito, il Paese, dopo i grigi anni Settanta delle domeniche di austerity e del martirologio di marca bierre, prima linea o bombaroli di destra, gridava forte la sua gioia di vivere.

Fu vera gloria? Su quella modernizzazione cosmetica e cafona si potrebbero scrivere enciclopedie senza giungere a un punto condiviso. Ma fu storia, storia di soffio impetuoso e di irreversibile spessore. E lo fu in misura ancora maggiore per quel che riguarda la politica estera. Tutti ricordano la sera di Sigonella. Ma sono in pochi a ricordare che fu Bettino Craxi, tramite Guido Calvi e il Banco Ambrosiano, a organizzare insieme al Papa polacco il flusso di finanziamenti che salvò Solidarnosc e ne permise sopravvivenza malgrado Jaruzelski. E non bisogna essere degli storici per sapere che fu nelle inquietudini dei cantieri di Danzica che sorse il vento destinato ad abbattere dieci anni dopo il Muro di Berlino.

Fu storia densa di intoppi: costò la vita a Calvi sotto il ponte dei Blackfriars; rischiò di costarla a Giovanni Paolo Secondo sotto i colpi di Ali Agcà. La costò anche a Craxi, in altro modo. Perché solo anime piccole e squallide come quella di Marco Travaglio possono credere che la vicenda del leader socialista, della sua ascesa e della sua caduta, possano essere un affare di casellari giudiziali.

L’opinione di chi scrive è che la retorica manettara di Mani Punite copra un sostanziale colpo di Stato, mirato (secondo gli implacabili calendari della geopolitica) a spegnere ogni velleità di protagonismo italiano attraverso la distruzione dell’architrave del suo ordinamento, ossia il sistema dei partiti. Ne fu protagonista un magistrato dal passato oscuro, che durante la maxi inchiesta andava a riferire con regolarità al Console degli Stati Uniti a Milano. Che a Craxi non si volessero far pagare ruberie, ma l’atto di insubordinazione della notte di Sigonella (e in generale un rapporto con il mondo arabo non gradito a Israele e al suo Lord Protettore) è più di un sospetto.

Ma il punto non è la disputa, bastantemente meschina, sulle spoglie di un uomo, arrivato come tutti in solitudine al passo d’addio. Il punto è credere che la storia possa essere davvero processata. Non è possibile, e non per qualche astrusa teoria sull’immunità. È che le sentenze, per definizione, stabiliscono verità e certezze, per quanto pattizie e inautentiche. La storia non le conosce. Giuseppe Garibaldi, il cui nome adorna statue equestri, piazze e vie, è stato l’Eroe dei due mondi? Un grande generale? Un militare di indomito coraggio ed eroismo? Certamente. E anche un mercante di schiavi, anche il condottiero di un’impresa illegale come la spedizione dei Mille, anche il responsabile indiretto di atti di barbarie che durante quell’impresa, come in ogni guerra, vennero compiute.

Napoleone fu un genio della scienza bellica? Il facitore o l’ispiratore del Code Civil, l’uomo che trasmise ai continenti il triplice grido di libertà, uguaglianza e fraternità? Certo, e fu anche il proditorio assassino del Duca d’Enghien, e il golpista che conquistò il potere a colpi di cannone, il sequestratore del Papa e il saccheggiatore dei nostri tesori d’arte.

Come in vita, anche dopo morto il ribelle Bettino Craxi, al pari di ogni grande, ci impedisce di ricorrere alle comode certezze del pregiudizio. Chi parla di lui come mariuolo latitante o come statista esule in realtà sta parlando di se stesso, di ciò in cui crede, dei numi a cui rende omaggio. Noi restiamo fieri avversari della storia monocolore dei regimi e scegliamo quella controversa, tumultuosa e inestricabile dei popoli. Dei popoli, non delle plebi urlanti sotto il patibolo.

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